Kronos The Magazine - Elogio alla Follia Kronos The Magazine - Elogio alla Follia - Pagina 22

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Discussione: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

  1. #421
    Senior Member L'avatar di manuè
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    questa dovrebbe andare in 'murika plis staph amarcord
    se lasciati a se stessi i problemi tendono a risolversi da soli, se così non accade, allora è meglio lasciar perdere il tutto e passare ad altro.

    - gli ignoranti ignorano -

  2. #422
    Cheeki Breeki! L'avatar di Rot Teufel
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    il pollo

  3. #423
    Senior Member L'avatar di GenghisKhan
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    Le armi portano sicurezza

  4. #424
    Kronos The Mad
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    Le Belve di Vercelli



    Doretta Graneris e Guido Badini. Nomi che, oggi, dicono poco o nulla. Personaggi caduti nel famigerato dimenticatoio, passati in secondo, terzo piano, sepolti, inghiottiti dall’inesorabile trascorrere del tempo e delle cronache.
    Eppure, stiamo parlando di due tra i più spietati, lucidi assassini che la storia contemporanea italiana abbia mai incontrato sul proprio cammino. Doretta Graneris e Guido Badini, infatti, sono passati alla storia con il macabro appellativo “le belve di Vercelli”. Ma riavvolgiamo il nastro della narrazione sino a quei fatidici giorni di 43 anni fa. È il novembre del 1975.
    Doretta e Guido, legame mortale

    Doretta Graneris (Vercelli, 16 febbraio 1957) è una ragazza di 18 anni. La sua famiglia, borghese e ben vista dalla comunità locale, è composta dal padre, Sergio Graneris (45 anni), dalla madre, Itala Zambon (41 anni), dal fratello minore, Paolo Graneris (13 anni) e dai nonni materni, Romolo Zambon e Margherita Baucero, rispettivamente di 79 e 76 anni. Doretta è diplomata al Liceo Artistico e, saltuariamente, va a lavorare nella officina da gommista del padre.
    Una famiglia, dunque, normale, ordinaria, come tante: la scuola, gli affetti, i problemi, la monotonia della vita di provincia. Tutto sembra tremendamente comune, consueto. Normale, appunto. Ma non è così. Doretta, invero, vive in modo personale il proprio disagio famigliare, sociale ed esistenziale. Un disagio silenziosamente interiorizzato e covato, ma pronto ad esplodere e a manifestarsi in modo violento e vendicativo.
    E’ descritta come una ragazza solitaria, “complessata” – usando una definizione tanto semplicistica quanto diffusa –, è attratta ossessivamente dal sesso. Si considera brutta e grassa, si ritiene inferiore, è insofferente verso tutto e tutti – ad iniziare dalla sua città, Vercelli – e reputa i propri genitori eccessivamente severi, autoritari, retrogradi, rigidi, tradizionalisti. L’insofferenza di Doretta rispetto ai propri genitori – che le impediscono anche di uscire la sera – si tramuta in viscerale disprezzo.
    Si scontra spesso con il padre Sergio e la madre Itala: scontri generazionali, ribellione giovanile nei riguardi di una famiglia che, al contrario, non ha mai fatto mancare nulla ai propri figli, Doretta compresa. Rigidi sì, ma al contempo generosi. Sergio Graneris, a testimonianza degli ottimi rapporti che intercorrono tra i Graneris e gli Zambon, apre una attività di gommista assieme a Romolo.
    Famiglia benestante quella Graneris; persone abituate a guadagnarsi il pane (ed il danaro) con il sudore del proprio lavoro. Prerogativa che, tuttavia, non piace a Doretta.
    Nel novembre 1975, Doretta Graneris ha un fidanzato. Si chiama Guido Badini, 23 anni, ragioniere, rimasto prematuramente orfano: il padre, morto in un ospedale psichiatrico quando ha 14 anni, la madre, sarta, malata di cancro.


    Si sono conosciuti a fine 1972, a casa di Doretta, in occasione del Capodanno. Guido Badini è un ragazzo ormai allo sbando: privo di punti di riferimento, disadattato, senza lavoro. Un “Peter Pan” in negativo. Tra i due nasce un rapporto contraddistinto da malsana complicità, all’interno del quale è Doretta a condurre le danze: ella è la figura dominante e catalizzante, Guido recita il ruolo di spalla ideale. I due sono accomunati da una visione al contempo ribelle ed apatica della vita: entrambi senza lavoro e voglia di trovare un impiego, la coppia vive grazie al denaro dei genitori. Ma non vogliono ambire ad una vita misera, fatta di stenti: al contrario, essi bramano denaro ed un tenore di vita agiato. Denaro facile.
    La relazione tra i due giovani, però, è vista di cattivo occhio dalla famiglia di Doretta. Liti e reiterate discussioni conducono ad un punto di rottura, di non ritorno: Doretta e Guido vanno a vivere insieme, a Novara, nell’appartamento di Guido Badini. Solo la generosità e la premura dei genitori della ragazza – nonostante gli attriti con la propria figlia e la mai sopita diffidenza verso il suo compagno – consente alla giovane coppia, priva di indipendenti entrate finanziarie, di vivere abbastanza dignitosamente. Anche alla luce del timido riavvicinamento, la famiglia di Doretta costituisce sempre più un peso, un ingombrante fardello, un ostacolo allo stile di vita dissoluto e solitario della coppia. Doretta e Guido decidono di sposarsi: le nozze sono programmate per la fine di novembre. Questa, tuttavia, non sarà l’unica decisione presa dai due giovani in quei freddi giorni.
    13 novembre 1975: la strage della famiglia Graneris

    Doretta Graneris e Guido Badini, inesorabilmente stritolati dalla loro “realtà parallela”, meditano un piano diabolico: uccidere, sterminare la famiglia Graneris. Avidità – impossessarsi del patrimonio della famiglia stessa – e desiderio di eliminare ogni persona sgradita sono le cause scatenanti che portano alla strage. Si stima un ammontare di circa 100 milioni depositati in banca. Altro denaro sarebbe ricavato, nelle intenzioni della coppia, dalla vendita degli immobili di famiglia.
    È la sera del 13 novembre 1975. Doretta e Guido si recano a casa della ragazza, una villetta in via Caduti nei Lager 9, situata alla periferia Sud-Ovest di Vercelli. La famiglia è raccolta davanti al televisore, ignara dell’atroce destino che la attende. Assieme a Doretta e Guido vi è un terzo ragazzo. Si chiama Antonio “Toni” D’Elia, 19 anni di Trecate ma di origine calabrese, un altro sbandato con precedenti penali, una sorta di amante – alla luce del sole – di Doretta. I tre giungono a casa della famiglia di Doretta dopo disparati passaggi ancorché alquanto arrischiati: Doretta, dopo aver lasciato l’appartamento di Guido Badini, si reca da Antonio D’Elia. I due rubano, ad Arese, una Simca, vettura che poi verrà data alle fiamme. Frattanto, Guido Badini noleggia una FIAT 500, con la quale raggiunge i due complici a Vercelli.
    In casa entrano solo Doretta e Guido. D’Elia attende fuori, in strada. La coppia, prossima al matrimonio, discute coi genitori della ragazza circa alcune delicate questioni riguardanti le nozze. D’un tratto, la mattanza ha inizio.
    La dinamica vede Doretta e Guido sparare in simultanea con pistole diverse, una Beretta ed una Browning. Pochi secondi ed è tutto finito. La famiglia Graneris viene decimata dalla lucida follia di Doretta e Guido: cadono in sequenza il padre Sergio, la madre Itala, i nonni Romolo e Margherita, infine Paolo. Il fratello tredicenne, dapprima solo ferito e che cerca sino all’ultimo riparo, viene freddato con un colpo a bruciapelo. Il suo corpo giace vicino alla finestra. In tutto, le pistole di Guido e Doretta esplodono 19 colpi. La mattanza si è consumata, rapida e feroce, la famiglia di Doretta Graneris annientata. I ragazzi lasciano la villetta e si dirigono a casa di un altro amico, ove rimangono circa due ore. Come nulla fosse.


    L’arresto e le condanne





    La carneficina viene scoperta, la mattina seguente alla strage, da Maria Ogliano, 67 anni, madre di Sergio Graneris e nonna di Doretta, insospettita dalla assenza del figlio al lavoro. Il lampadario ed il televisore ancora accesi. Il cancello incomprensibilmente aperto. La scena che si palesa agli occhi della Ogliano e dei Carabinieri è raccapricciante. Bossoli ovunque, di due pistole.
    Le indagini non tardano ad attivarsi. Gli investigatori rintracciano a stretto giro Doretta, in quell’istante in compagnia di Guido, a Novara. I due sono fuori casa, al mercato. Come mai la ragazza mostra una innaturale insensibilità di fronte alla notizia dello sterminio della propria famiglia? E come mai, nell’abitacolo dell’auto di Badini, i Carabinieri trovano un bossolo del medesimo calibro (7,65) ritrovato sulla scena del crimine? Badini afferma che gli è caduto dopo una sessione al poligono di tiro: ed effettivamente, il ragazzo va a sparare al poligono e possiede alcune pistole.
    Tutto si sviluppa e si consuma nell’arco di poche ore. La coppia è prontamente condotta in caserma.
    L’interrogatorio è lungo e tambureggiante. I due assassini cedono e confessano: il primo a cedere è Guido, Doretta – che in un primo momento nega il proprio coinvolgimento – confesserà più tardi.
    In una prima fase, Doretta si assume tutta la responsabilità degli omicidi. Ma gli inquirenti non le credono. Guido, possessore e appassionato d’armi, confessa, ma scarica ogni colpa su Doretta, la vera regista dei crimini. Tra i due inizia uno scaricabarile senza soluzione di continuità: Doretta accusa Guido, Guido accusa Doretta. L’amore tra i due, ancora vivo nelle prime fasi delle indagini (scambio di lettere appassionate), svanisce allorché ognuno cerca il modo di addossare la colpa sull’altro.
    Non è tutto: i due – specie Guido – cambiano più volte versione dei fatti. Guido, ad un tratto, si assume ogni responsabilità: è lui ad aver sparato, lui ad aver ucciso, lui a voler rendere orfana la sua amata Doretta in segno di disprezzo verso gli opprimenti genitori della ragazza. Insomma, un omicidio a sfondo passionale: sterminare la famiglia della propria amata quale estrema prova d’amore, nonché rivalsa su persone – i genitori di Doretta – che non lo hanno mai apprezzato. Doretta e Guido: accomunati dalla assenza dei genitori. Una visione tanto complice quanto distorta.
    Poi, però, si rimangia tutto. Al contempo, la posizione di Antonio D’Elia appare subito più defilata: è sì complice, partecipa ai delitti ma il suo ruolo appare “marginale”, logistico potremmo definirlo. La pena inflitta al D’Elia, infatti, rispecchia i fatti.
    Guido afferma, inoltre, di essere stato plagiato, condizionato da Doretta. Questa, come emerge dalle carte processuali, si rivela un’abile dominatrice senza scrupoli. I due cercano, ad ogni modo, di invocare l’infermità mentale mediante inverosimili esternazioni e falsi retroscena i quali, infatti, vengono rigettati. Doretta e Guido sono bugiardi, furbi, feroci assassini ma totalmente capaci di intendere e volere. Qualcuno, in un’epoca in cui lo scontro politico si manifesta anche in modo particolarmente violento, cerca di conferire un colore politico ai delitti: Badini, infatti, parimenti ad altri personaggi invischiati più o meno direttamente in questa losca vicenda, è un simpatizzante di estrema destra. Una vendetta politica? No, nulla di tutto ciò. La politica, qui, non c’entra. È solo una “invenzione intellettuale” della stampa.
    Durante il processo, ecco il colpo di scena. Si scopre che Guido Badini ha già ucciso, in luglio. La vittima è Anna De Giorgi, una prostituta. Un delitto apparentemente privo di movente. Guido Badini, invero, ha ucciso la donna solo per il gusto di uccidere: una prova di forza della quale potersi vantare di fronte a Doretta e ai suoi amici. Badini cerca di coinvolgere altre persone, ma questi si rivelano estranei ai fatti.
    Doretta Graneris e Guido Badini sono condannati all’ergastolo. È l’aprile del 1978. L’Appello – datato 1980 – e la Cassazione, nel 1983, confermano la pena detentiva.
    Nel gennaio 1987, Doretta ottiene 15 giorni di libertà: esce da Le Nuove di Torino assieme ad una assistente sociale del SERMIG (Servizio Missionario Giovani). Nel 1991, inizia a lavorare nel Gruppo Abele di don Ciotti. Diciotto anni dopo gli omicidi di Via Caduti nei Lager 9, Doretta Graneris ottiene la semilibertà (7 aprile 1993), tramutata in libertà condizionale nel 2000.
    La donna – laureata in Architettura ed ormai integrata – vuole dimenticare ed essere dimenticata ma, inevitabilmente, la eccessiva benevolenza della giustizia non può che destare dubbi e perplessità.
    Anche Guido Badini, all’apparenza un “detenuto modello” come Doretta, palesa un percorso carcerario tormentato. Nel 1987, escogita un piano, con la complicità di persone all’esterno del carcere, per evadere – approfittando di un permesso premio – ed uccidere nuovamente. Piano prontamente smascherato e soffocato sul nascere. Nel 1997, ritorna in carcere, a Brescia: traffico di droga. Anche Badini, nel marzo 1993, aveva ottenuto un regime di semilibertà; dal 1992, lavorava come giardiniere nella comunità “Fraternità” di Ospitaletto. Dai primi anni 2000, Badini è libero.
    Il caso Graneris è, in definitiva, una torbida storia di provincia. La provincia quale scenario ricorrente – in passato come ai giorni nostri – di efferati episodi di cronaca nera. Una torbida storia in cui una figlia ribelle ed il proprio ragazzo – anch’egli mina impazzita immersa nella movimentata, ardente ma al contempo tradizionalista società Anni ’70 – commettono uno degli omicidi multipli più disumani della storia d’Italia. Non tutto è stato scritto, non tutto è stato detto attorno a quella sera del 13 novembre 1975. Doretta, infatti, ha confessato gli omicidi ma la dinamica degli accadimenti appare ancora sfocata.
    Doretta Graneris, anche in sede processuale, spersonalizza i membri della propria famiglia: “lui”, “lei” al posto di “papà” o “padre”, “mamma” o “madre”. Distacco, spersonalizzazione, barriera psicologica rispetto ad avvenimenti fortemente traumatizzanti sebbene scaturiti dalla protagonista stessa, Doretta.

    Aspetti inquietanti di una vicenda ancora di tremenda attualità.

    Fonte: Emadion

  5. #425
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia


  6. #426
    Kronos The Mad
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    Brava donna

  7. #427
    Kronos The Mad
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    La terribile Tucandeira

    (da Bizzarro Bazar
    http://bizzarrobazar.com)



    Il rito di iniziazione della tucandeira è tipico del popolo Sateré Mawé stanziato lungo il Rio delle Amazzoni al confine tra gli stati di Amazonas e di Pará del Brasile.
    Il rituale prende il nome da una formica di grandi dimensioni (la Paraponera clavata) la cui dolorosissima puntura, 30 volte più velenosa di quella di un’ape, causa gonfiore, arrossamento, febbre e violenti brividi.

    Questa prova di coraggio e di resistenza sancisce l’ingresso nell’età adulta: ogni adolescente che voglia diventare un vero guerriero vi si deve sottoporre.

    La tucandeira si svolge nei mesi dell’estate amazzonica (da ottobre a dicembre).
    Per prima cosa si catturano le formiche, prelevandole dai formicai ubicati alla base di alberi cavi, e le si rinchiudono in un bambù vuoto chiamato tum-tum. Viene poi preparata una mistura di acqua e foglie di cajú, e le formiche vengono immerse e lasciate in questa “zuppa” anestetizzante.



    Una volta che sono addormentate, vengono inserite a una a una nell’ordito di un guanto di paglia, con i temibili pungiglioni rivolti verso l’interno. Si aspetta poi che si risveglino dal loro torpore: rendendosi conto di essere intrappolate, le formiche cominciano ad agitarsi, sempre più rabbiose.





    Quando finalmente arriva l’ora del rituale vero e proprio, tutto il villaggio di riunisce per osservare e incoraggiare gli adolescenti che si sottopongono all’iniziazione. È il tanto temuto momento della prova. Riusciranno a resistere al dolore?






    Colui che conduce la danza intona il canto, adattando le parole alla circostanza. Le donne siedono davanti al gruppo degli uomini e accompagnano la melodia. Alcuni candidati si dipingono le mani di nero con le bacche del genipapo e poi bevono un liquore molto forte detto taruhà, a base di manioca fermentata, utile per attenuare il dolore e darsi forza nell’affrontare il rito. Chi affronta la tucandeiraper le prime cinque volte deve assoggettarsi a determinate diete. Quando le formiche si risvegliano, inizia il rito vero e proprio. Il direttore della danza fa scivolare i guanti sulle mani dei candidati e soffia del fumo di tabacco nei guanti, per irritare ulteriormente le formiche. Poi i suonatori attaccano a suonare rudimentali tubi di legno mentre i ragazzi iniziano a danzare.

    (A. Moscè , I Sateré Mawé e il rito della tucandeira, in “Etnie”, 23/01/2014)




    Le formiche inferocite cominciano a pungere le mani dei giovani, che vengono fatti ballare per distrarsi dal male. In poco tempo le mani e le braccia si paralizzano; per superare la prova, il candidato deve indossare i guanti per almeno dieci minuti.





    Passato questo lasso di tempo, i guanti vengono rimossi e il dolore ricomincia a manifestarsi. Ci vorranno ventiquattro ore perché l’effetto delle neurotossine inoculate si plachi; il giovane sarà vittima di dolori lancinanti e talvolta preda di tremori incontrollabili anche nei giorni successivi.
    E questo per lui è solo l’inizio: per essere completo, il rito andrà ripetuto altre 19 volte.



    Attraverso questo rituale, un Sateré Mawé riconosce le proprie origini, leggi e usanze; e dall’adolescenza in poi dovrà ripeterlo almeno una ventina di volte per poterne trarre i benefici effetti. Tutta la popolazione partecipa al rito e osserva come i candidati lo affrontano. È un momento importante per conoscersi, incontrarsi, contrarre futuri matrimoni.
    La tucandeira è anche un rito propiziatorio, attraverso il quale l’indio può diventare un buon pescatore e cacciatore, avere fortuna nella vita e nel lavoro, essere un uomo forte e coraggioso. La gente si riunisce molto volentieri per questo rituale, che oltre all’aspetto festivo e ludico è anche l’occasione per rievocare il mito cosmogonico dell’origine delle stelle, del sole, della luna, dell’acqua, dell’aria e di tutti gli esseri viventi.

    (A. Moscè, Ibid.)


    In questo video del National Geographic sulla tucandeira, il capo tribù riassume in maniera mirabile il senso ultimo di queste pratiche:

    “Se vivi la tua vita senza alcun tipo di sofferenza, o senza sforzo, non varrà nulla.”

    https://youtu.be/ZGIZ-zUvotM


    Tratto da:

    Bizzarro Bazar
    http://bizzarrobazar.com
    http://bizzarrobazar.com/2019/10/06/...le-tucandeira/

  8. #428
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    Citazione Originariamente Scritto da Kronos The Mad Visualizza Messaggio
    In questo video del National Geographic sulla tucandeira, il capo tribù riassume in maniera mirabile il senso ultimo di queste pratiche:

    “Se vivi la tua vita senza alcun tipo di sofferenza, o senza sforzo, non varrà nulla.”
    Ecco dov'è finito Teon

  9. #429
    Senior Member L'avatar di tigerwoods
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    E questo per lui è solo l’inizio: per essere completo, il rito andrà ripetuto altre 19 volte.


    auguri!

  10. #430
    ¯\_(ツ)_/¯ L'avatar di ZTL
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    Tristemente sparita la tribù che faceva lo stesso coi cazzi.
    Citazione Originariamente Scritto da Sinex/ Visualizza Messaggio
    ti stai già sborrando in mano e ti prepari con gli esercizi di apnea per uralre "VE L'AVEVO DETTOOOOO HAHAHAHAAH" mentre l'onda d'urto ti strappa le carni dalle ossa?

  11. #431
    Senior Member L'avatar di freddye78
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    Pff nulla rispetto alla sofferenza di un adolescente poco ossicinato della civiltà occidentale con gli ormoni a palla e nessuna che gliela dà

  12. #432
    Senior Member L'avatar di manuè
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    Re: Kronos The Magazine - Elogio alla Follia

    eeeehhhh... ma le tradizioni vanno conservate...
    se lasciati a se stessi i problemi tendono a risolversi da soli, se così non accade, allora è meglio lasciar perdere il tutto e passare ad altro.

    - gli ignoranti ignorano -

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