Gian lanciò il dado e strinse gli occhi perchè aveva paura di vedere il risultato. Sentì il tintinnio emesso da quel legno levigato di Stoppia percuotere il tavolinetto scandendo il ritmo del suo cuore; feroce, batteva come una batteria impazzita e assordante, valicandogli la cassa toracica sbatteva nella sua testa, provocandogli nel buio delle sue palpebre una sconcertante sensazione di vertigine. Aprì gli occhi quando sentì che non avrebbe potuto sopportare più la nausea e vide che il dado si stava quasi fermando: era successo tutto in un attimo. Sei.
I fori scuri e regolari impressi nella superficie erano ancora sei. Qualche pressa diabolica aveva schiacciato quel numero nell'anima del dado, pigiando con tutto il peso della consistenza di quell'oggetto un'energia animale, silenziosa ma vibrante in tutto ciò che circondava nell'immediato quella strana entità. Era la sesta volta che quella faccia del dado prevaleva su tutte dopo la lotta per la casualità. Gian aveva controllato più volte ed era sicurissimo che fosse un dado regolamentare. Lo sapeva perchè era un dadista della corte di sua maestà il Camubbio Argenteo: tutti i giorni controllava, smerigliava e ciucciava i dadi per 4 secondi, poi ne prendeva uno dal mucchio, lo ritagliava in sezioni geometricamente identiche e le misurava alla pesa atomica. Da questi test ne deduceva l'imparzialità probabilistica di tutto il blocco di dadi e se questa non veniva riscontrata, Gian aveva il potere, quale primo dadista della corte del Camubbio Argenteo, di far bruciare lo stabilimento presso cui il dado era stato costruito più cinque ettari di terra, case e popolazioni circostanti, che poteva distribuire omogeneamente entro il diametro prefissato così come accumularli entro una sola dimensione spaziale originando una cortina di fiamme che poteva raggiungere diverse contee, stretta e lunghissima. Gian aveva testato tutta la scatola dei millecentosei dadi cui apparteneva lo stesso malefico esemplare che lo beffava, anche se quello zelo esulava dai suoi incarichi, e aveva riscontrato una perfetta, mai fino ad ora registrata, regolarità: precisione nei rapporti dimensiomali, nella specificità del peso rapportato a ciascun millimetro cubico di ogni dado, nella densità del materiale impiegato così come nel reticolo molecolare di ciascun pezzo. Anche al gusto erano buoni. Ma quel dado no. Puzzava di imbroglio ma non poteva sezionare anche quello, perchè ne avrebbe compromesso per sempre la futuribilità di ulteriori indagini. Stette sei giorni chiuso nella sua dimora a pensare sul da farsi, non poteva contattare la ditta costruttrice perchè una simile empasse avrebbe dimostrato un'inadeguatezza rispetto alla posizione che copriva. Decise che doveva evitare lo scandalo ad ogni costo e quindi gli si palesarono due soluzioni: impiccarsi o lanciare, continuare a lanciare finchè, tiro dopo tiro dopo tiro non ne traesse una superficie differente, che non avesse scolpite tutte e sei le fosse nere della vergogna illogica, matematicamente paradossa; una faccia con la libertà di uno o più spazi liberi, salvi dal giogo cui ciascun dadista è imbrigliato quando mai potesse incontrare un dado facente parte di una partita di dadi sublimamente bilanciati, così impuro nel suo crudele ribadire il proprio risultato, ma così fiero e casto nel farlo. Quel dado aveva un anima tumultuosa e conservativa allo stesso tempo, un carattere vero ed indecifrabile come le migliori donne della corte reale, imperscrutabili e affascinanti, mosse da una grazia composta e imperturbabile dai lanci del destino. Quel tono superiore ribadiva l'essenza impura del Giocatore, la corruzione che dimorava nel tiratore di dadi! 'Se il Re... oh se il Re lo scoprisse! Sua Maesta' gridava pregando il soffitto Gian 'abbiate la grazia di perdonare chi ha spezzato il giuramento degli ordini dei dadaisti!'.
Gian fu trovato morto il 6 ottobre, dopo che la porta di casa sua fu forzata dalle truppe rege . Era impiccato. Ai suoi piedi, fra migliaia di dadi sbavati, ne spiccava uno di un bel legno levigato di Stoppia, gli angoli smussi e scheggiati, un aspetto eroso e consumato dalle infinite prove della vita.