MUTI? MA QUANTO MUTI?
di Aldo Manzin
Una delle leggende metropolitane che hanno accompagnato sin dagli esordi della pandemia la narrazione su SARS-CoV-2 è che questo virus sia un mostro in grado di mutare in continuazione e che, in virtù di questa proprietà “marziana”, sia in grado di eludere qualsiasi tentativo di arrestare la sua corsa verso lo sviluppo di nuove varianti aggressive. Parallelamente, la stessa narrazione ritiene che l’immunizzazione estesa della popolazione sia un fattore determinante nel forzare il virus a mutare con lo scopo di difendersi dall’attacco degli anticorpi indotti dai vaccini o dall’infezione naturale: in poche parole, si narra che i vaccini “producono” le varianti.
Si è detto ormai fino alla noia che i virus, e in particolare i virus con genoma a RNA (come il coronavirus responsabile di Covid-19), mutano in continuazione e lo fanno in modo casuale, perché si riproducono grazie all’attività di un enzima (la polimerasi) che può introdurre degli errori che, se conferiscono un vantaggio evolutivo al virus, ad esempio rendendolo più facilmente trasmissibile, vengono fissati e conservati in varianti che sostituiscono quelle che sono circolate precedentemente. Molti di questi errori portano però a generare virus non più in grado di sopravvivere, altri non modificano le caratteristiche del virus, altri ancora vengono corretti da una attività che si chiama “correzione di bozze” e che è una proprietà della stessa polimerasi virale (attività che SARS-CoV-2 possiede, a differenza della maggior parte dei virus a RNA).
La figura allegata mostra che SARS-CoV-2, a differenza di quanto si narra, in realtà muta molto poco: molto meno rispetto a coronavirus simili (quelli in rosso) o rispetto ad altri virus ampiamente diffusi nella popolazione, come morbillo, parotite, epatite B, influenza, epatite C, HIV. Per questi ultimi virus, inoltre, l’efficacia dei vaccini in uso (tranne HCV e HIV per i quali non esistono vaccini, e influenza, ma per motivi che ora sarebbe troppo lungo spiegare) è estremamente elevata.
Il genoma di SARS-CoV-2 è costituito da una serie di mattoncini, i nucleotidi, che sono in numero di circa 30.000. Un genoma piuttosto grande che, nonostante la capacità “riparativa” della polimerasi, non sopporta di accumulare un numero eccessivo di mutazioni, perché questo ne ridurrebbe la capacità di sopravvivenza. Si stima che per questo virus, considerando un tasso mutazionale che va da 1,2 ogni 10.000 nucleotidi/anno a 6,6 ogni 1.000 nucleotidi/anno, ci si devono aspettare mediamente circa 2 mutazioni ogni mese (ma, come spiegato prima, non tutte obbligatoriamente vengono conservate). Tutto questo significa che il virus muta sostanzialmente poco, e lo fa in modo del tutto casuale.
Le mutazioni che si sono generate in SARS-CoV-2 dall’inizio della pandemia hanno determinato via via la circolazione di varianti che progressivamente hanno sostituito le precedenti e hanno mostrato una maggiore capacità diffusiva (si trasmettono meglio da individuo a individuo), ma non sembrano dotate di maggiore aggressività (capacità di causare una malattia più grave). Tali varianti si sono sviluppate a partire da diverse regioni geografiche (da cui le precedenti denominazioni: inglese, indiana, sudafricana, brasiliana…) e ora vengono convenzionalmente designate in base alle lettere dell’alfabeto greco (alfa, beta, delta, ecc.). Quando hanno cominciato a diffondersi, presumibilmente, tali varianti? Alfa: settembre 2020; beta: maggio 2020; gamma: novembre 2020; delta (quella che ora sta soppiantando tutte le altre): ottobre 2020; epsilon: marzo 2020; zeta: aprile 2020; lamba: agosto 2020…… ben prima che iniziasse la somministrazione dei vaccini, in contesti dove il virus circolava ampiamente perché non contrastato da misure di contenimento efficaci, o perché queste risultavano disattese, e nonostante l’acquisizione dell’immunità da parte di chi aveva avuto l’infezione naturale.
Quindi non sono i vaccini a “creare” le varianti, e tanto meno gli anticorpi monoclonali (peraltro somministrati ancora pochissimo): è aver consentito al virus di circolare ad elevata intensità a determinare una maggiore chance per favorire varianti a più facile diffusione. E al di là degli interventi non farmacologici (lockdown, distanziamenti senza se e senza ma, uso indiscriminato delle mascherine), spesso ritenuti a torto gli unici capaci di contenere la circolazione del virus, la modalità più efficace rimane la vaccinazione, la più estesa possibile, per tutte le categorie attualmente ritenute idonee, in uno sforzo di impegno globale (mondiale) in cui si riconosca da parte della collettività il valore sociale oltre che sanitario di questo fondamentale presidio medico.
https://www.pnas.org/content/117/40/24614