Alessandro Francesco Giudice
8 hrs ·
Questa comica offre forse l'opportunità di ribadire una cosa. Non esiste oggi definizione più abusata (e inesatta) di "economista". Il punto non è che questa tizia non sia nemmeno laureata, ma che non dovrebbe definirsi economista neanche se lo fosse. Chiariamo. "Economista" non è una persona laureata in economia. Claudio Borghi non è un economista, anche se si fa spacciare come tale, tanto meno Giulio Tremonti, come non è economista quella biondina pugliese che scorrazza nei talk show, che sarà anche laureata in Bocconi ma non è economista. Io non sono economista, tanto per chiarire, anche se ho conseguito qualche titolo nella mia vita, ma la differenza fondamentale è che non mi sognerei di farmi presentare come "economista". Un economista non è nemmeno uno/a che scrive libri di argomento economico. Pubblicare un saggio, per quanto rispettato ne sia l'editore, non fa dell'autore un economista.
Anni fa lo ha spiegato molto bene Alberto Bisin (che è economista di livello internazionale) in un post che sintetizzo (sperando che mi perdoni).
1. Un economista ha un PhD, non una laurea in economia. PhD (nella terminologia internazionale) è quello che in Italia si chiama dottorato di ricerca ed è il massimo titolo che un'istituzione accademica rilascia dopo un percorso di studi specifico, che culmina nella difesa di una tesi. Che non è una tesi di laurea, più o meno interessante che sia, ma un lavoro di ricerca che deve raggiungere conclusioni innovative, originali e considerate interessanti (e utili) dalla comunità accademica.
2. Un economista fa ricerca. Fare ricerca non significa semplicemente studiare, ma pubblicare. Pubblicare non significa scrivere un libro e venderlo su Amazon o in libreria, nemmeno se diventa un best-seller. Pubblicare significa scrivere articoli scientifici (paper accademici) che devono poi trovare spazio in una cerchia molto ristretta di riviste accademiche. Un paper non si scrive in qualche giorno ma richiede mesi e a volte anni di lavoro, di analisi della letteratura scientifica, di ipotesi, di studio dei dati che devono confermare o disconfermare quelle ipotesi con metodi matematici e statistici, non a chiacchiere o opinioni. Poi il paper viene giudicato in forma anonima da un panel di economisti in varie parti del mondo, particolarmente reputati nella comunità scientifica, che devono ritenerlo originale, innovativo, interessante per l'avanzamento della scienza economica. E allora viene pubblicato. E anche la rivista ha la sua importanza perché in ogni branca dell'economia le riviste veramente autorevoli sono 2 o 3 e non è facile che decidano di pubblicare il tuo lavoro se non è veramente importante.
3. Un economista presenta il suo lavoro ad altri economisti, non alla stampa o alla "gente". Le sue conclusioni vengono studiate, analizzate, sottoposte a prova contraria e diventano oggetto di dibattito scientifico.
4. Un economista insegna. Non fa il docente in qualche corso e non ha contratti di insegnamento. Ha una cattedra, insegna a un dottorato di ricerca, o fa parte a tempo pieno di un faculty. Segue la ricerca di altri aspiranti economisti e partecipa al loro lavoro con atteggiamento critico, scettico perché lo scetticismo è parte essenziale del metodo scientifico.
A questo punto devo - per concludere - citare direttamente Bisin "Un trucco tipicamente usato da questi sedicenti economisti (e dai venditori di olio di serpente) e quello di lamentare il "pensiero unico" che li esclude. Non e' cosi'; essi sono esclusi semplicemente perche' son fuori - non sono economisti, non partecipano al dibattito disciplinare ne' lo comprendono (il dibattito sulla stampa e' ben altra cosa, ovviamente; a quello partecipano e fan bene a farlo se hanno qualcosa da dire). Ma il "pensiero unico" e' un'invenzione. Critiche interne all'economia esistono eccome. Lo sono naturalmente quelle di P. Krugman o di J. Stiglitz (su di esse io ho i miei dubbi, ma per questioni diverse, perche' sono motivate dalla retorica politica). Ma soprattutto, critiche interne sono ad esempio quelle di D. Laibson e M. Rabin (economisti comportamentali; ad Harvard e a Berkley, non tra gli infedeli). E' che essendo queste critiche intelligenti e complesse, pochi le comprendono al di fuori del dibattito accademico, dove si blatera invece di "pensiero unico". Invece critiche da parte chi non ha mai praticato la professione come tale ma si ostina a millantare di farne parte sono innanzitutto disoneste, indipendentemente dal fatto che siano critiche solide o meno"
Questo non significa, naturalmente, sostenere posizioni elitiste o negare che idee interessanti possano scaturire da circoli non accademici. Tutt'altro. Ma si tratta di discernere. Capire che una cosa è esprimere opinioni (legittime, utili) nei talk show televisivi o nelle interviste giornalistiche, altra cosa è sostenere tesi e sottoporle alla prova dei dati.
Tutti dovrebbero immediatamente chiedersi - quando vedono qualcuno in televisione qualificarsi come "economista" - se tanto per cominciare è un economista. Prima di considerare autorevoli o meno le cose su cui spesso pontificano.
Non è questione ti titoli ma di metodo e di credibilità
Penso che la stessa cosa valga per i virologi, epidemiologi, pneumologi e quant'altro, che vengono disinvoltamente esibiti in televisione.
La differenza non è tra laureato e non laureato, ma tra scienza e non-scienza.
Spero che i numerosi amici economisti (veri) che mi leggono su FB mi perdonino la banalizzazione.