Sono due giorni che penso alla faccenda di Grillo. Ne ho parlato in privato, con amici e amiche. Ne ho letto, più o meno ovunque. Eppure l’inquietudine è rimasta piantata lì, in mezzo al cervello.

A turbarmi non è solo il video di un uomo vecchio e verbalmente violento che in poco più di un minuto dimostra quanto anni di clic-femminismo siano inutili (d’altra parte, siamo il Paese che nelle fiction nazionalpopolari mette in scena finte denunce di stupro, lo stesso in cui centinaia di migliaia di utenti - dai pre-adolescenti ai padri di famiglia - si scambiano fotografie e video intimi di minorenni nei canali Telegram, appellandole con qualsiasi epiteto compreso tra “cagna” e “troia”… questo per dire che la “rape culture” purtroppo non inizia e non finisce in Beppe Grillo, per quanto negli ultimi giorni ne sia diventato il più eccellente testimonial).
A turbarmi non è solo il deplorevole victim blaming, in merito al quale più o meno chiunque si è già espresso, giustamente, nelle ultime 48 ore.

A turbarmi, anche, è l’apparente inafferrabilità del concetto di consenso che pure ricorre sempre in questi frangenti. Il consenso, questa materia dai contorni incerti, questo terreno impalpabile e mutevole che sta alla base di una sessualità sana e libera, del quale continuiamo a parlare e sul quale continuiamo a non capirci.

Il consenso. Quando c’è? Quando non c’è? Come si esprime? Come si riconosce? E’ sempre chiaro? Fino a quando vale? Si può essere consenzienti se si è sbronze? Si può essere consenzienti all’inizio e poi cambiare idea se, magari, la natura dell’incontro prende una piega che non ci sta bene? Si può essere consenzienti se si è in presenza di uno squilibrio di potere, che sia simbolico oppure fisico, oppure numerico? Si può essere consenzienti se qualcuno ci filma nell’atto? Si può essere consenzienti se qualcuno ci procura del dolore? Come si fa a comunicare e recepire il consenso? Se il consenso è la base di una sessualità consapevole (e, di solito, quanto più è consapevole tanto meno si creano equivoci attorno a esso), è lecito supporre che il problema sia anche nella sessualità così com’è diventata?

Ieri, mentre m’arrovellavo, mi è tornata in mente un’intervista a Madame che ho visto qualche settimana fa, in cui dichiarava di aver iniziato a guardare il porno a 8 anni (e di aver visto TUTTO nel giro di pochissimo tempo). Otto anni. Noi, a 8 anni, ci chiedevamo se essere Sailor Moon o Sailor Mars. Le più sgamate, erano team Brenda o team Kelly. I maschi coetanei (quelli cis ed etero), forse, vivevano i primi smottamenti ormonali di fronte alle copertine de L’Espresso o di Panorama. Nessuno, comunque, avrebbe potuto immaginare cosa fosse un facial o una doppia penetrazione e, dieci anni dopo, nessuno avrebbe pensato di mettere in pratica l’uno oppure l’altra.

Ecco, parlare di consenso senza collegarlo all’assenza di qualsiasi forma di dialogo e di educazione sessuale in proposito, in nessun ambito della nostra società, è incompleto.

Parlare di consenso senza porlo in relazione al consumo precoce di pornografia mainstream (basata sull’umiliazione, l'oggettificazione e la sottomissione del femminile, nella quale il consenso è quasi sempre non pervenuto e sostituito da una brutalità punitiva), è incompleto, tanto più se si considera che quella pornografia nella maggior parte dei casi è l’unico strumento pedagogico a disposizione dei più giovani per apprendere la sessualità e gettare le fondamenta del proprio immaginario.

Parlare di consenso senza chiarire che c’è una differenza tra fantasia e realtà sessuale, senza chiarire cosa sia il sesso in effetti, o cosa dovrebbe essere (e cioè un’attività vitale, che coinvolge il corpo e il cervello, un atto di comunicazione tra due o più persone, un gioco di reciprocità tra le parti, uno scambio di umanità che rispetti la volontà di tutti, e non una performance, un consumo, un abuso della dignità e dell’intimità altrui), ecco mi sembra che resti sempre fine a se stesso, un discorso amputato della sua componente più essenziale.

Il problema c’è? Sì, enorme.
Esisteva anche prima? Sì, ma ora è persino più complesso.
Possiamo fare qualcosa per risolverlo? Sì, parlarne bene, cogliendo la questione nella sua complessità, fuori dai social network, in famiglia, a scuola, nel tempo libero, laddove la realtà è fatta di sfumature e differenze.

Per esempio, mi chiedo: non sarebbe bello se, magari, oltre a mandare i bambini a fare corsi per imparare a nuotare, a suonare il clarinetto, o a parlare 2 o 3 lingue, iniziassimo a pensare a degli incontri per imparare a essere persone capaci di comunicare, di sentire l’altro, di divertirsi senza farsi male, di vivere il sesso nel rispetto di se stessi e del prossimo?
Non so, ipotizzo.

Intanto, favorisco nei commenti un articolo sull'educazione sessuale che scrissi nel 2018 per Corriere. È datato, ma forse non troppo.