Quello che sappiamo ad oggi è che quasi tutti i pazienti convalescenti Covid-19 sviluppano cellule T attivate in risposta all'infezione SARS-CoV-2. Un gruppo di ricercatori svedesi del Karolinska University Hospital ha eseguito analisi immunologiche su oltre 200 persone con Covid-19, molte delle quali con sintomi lievi o asintomatici. L’aspetto più interessante emerso è che i pazienti con Covid-19 grave sviluppavano sia una forte risposta anticorpale che una risposta orchestrata dai linfociti T; mentre quelli con sintomi più lievi non sempre avevano sviluppato una risposta anticorpale. Nonostante ciò, la maggior parte di queste persone asintomatiche mostrava una marcata risposta dei linfociti T. Inoltre, non erano solo gli individui con Covid-19 confermato a mostrare l'immunità dei linfociti T, ma anche molti dei loro familiari esposti e rimasti sempre asintomatici, suggerendo che la risposta delle cellule T da sola possa conferire protezione anche senza sviluppare anticorpi. A conferma di ciò, la cosa più sorprendente identificata è che circa il 30% delle persone che avevano donato il sangue a maggio 2020, aveva cellule T specifiche per il coronavirus, un numero molto più alto di quanto hanno dimostrato i precedenti test anticorpali.
Queste differenze potrebbero spiegare il motivo per cui alcune persone, pur essendo infettate dal virus, non sviluppano cellule B e quindi anticorpi misurabili nel sangue, ma combattono rapidamente l’infezione mediante una risposta guidata dalle cellule T.
Per capire la potenziale immunità a lungo termine garantita delle cellule T, un gruppo di ricercatori della Duke-NUS Medical School ha dimostrato nel 2020 che alcune persone che avevano contratto la SARS causata dal SARS-CoV nel 2003 presentavano a 17 anni di distanza una risposta immunitaria al virus basata sulle cellule T, facendo ben sperare in una simile risposta anche per il SARS-CoV-2. Sebbene questi dati siano molto incoraggianti, quello che si è osservato è esattamente ciò che ci si aspetta dal nostro sistema immunitario, ovvero che risponda in modo molto specifico e duraturo ad una nuova infezione generando cellule B e T specifiche.
La scoperta più significativa è però emersa da tre lavori indipendenti che sono giunti alla stessa conclusione: anche in circa il 30-40% di persone mai entrate in contatto con SARS-CoV-2 erano presenti delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare il virus. Come è possibile che soggetti mai esposti al virus abbiano nel loro corpo cellule T specifiche in grado di rispondergli?
Gli studiosi hanno scoperto che esistono delle cellule T che sono in grado di riconoscere diversi virus che presentano delle caratteristiche strutturali comuni (in termine tecnico ‘cross-reattive’) e che sono in grado di reagire a più virus contemporaneamente. Nello specifico, in questi studi hanno dimostrato che i soggetti che avevano incontrato i più comuni coronavirus stagionali del raffreddore (HCoV-OC43, HcoV-229E, HCoV-NL63 e HcoV-HKU1) presentavano delle cellule T in grado di riconoscere ed eliminare anche SARS-CoV-2.
Sulla base dei loro risultati, quindi, i ricercatori ipotizzano che un'esposizione preesistente ai virus del raffreddore possa contribuire alle variazioni della gravità della malattia nei pazienti che contraggono Covid-19.
Come ormai abbiamo imparato, i virus una volta entrati nel nostro corpo si adattano e mutano per sopravvivere il più a lungo possibile.
Il SARS-CoV-2 non è da meno: ogni volta che infetta una persona diversa, può sviluppare delle piccole mutazioni nel suo RNA capaci di renderlo maggiormente ‘adatto alla sopravvivenza’ nell’ospite.
Da qui il termine “varianti del virus” che stanno destando tanta preoccupazione in tutto il mondo. Le mutazioni studiate sono per la maggior parte quelle che riguardano la proteina Spike in quanto potrebbero modificare la capacità del SARS-CoV-2 di entrare nelle nostre cellule, diffondendosi più rapidamente.
Con l’obiettivo di identificare la capacità delle cellule T di neutralizzare tutte le varianti del SARS-CoV-2, il gruppo di ricerca guidato da Andrew Redd della Johns Hopkins University School of Medicine ha analizzato il sangue di 30 persone, che avevano contratto Covid-19 ad inizio pandemia, quando ancora nessuna delle varianti si era generata. Con grosso stupore e un pizzico di ottimismo, i ricercatori sono stati in grado di dimostrare che la risposta delle cellule T era rimasta praticamente intatta contro le diverse varianti. Questo ci permetterebbe di mantenere un’efficiente immunità a lungo termine anche nello sfortunato caso in cui alcune varianti, come sembrerebbe essere per le varianti Beta e Gamma, acquisissero una parziale resistenza agli anticorpi generati durante l’infezione con il SARS-CoV-2 originario non mutato.
Immunità preesistente: cosa significa?*
Può succedere che molti individui siano in grado di difendersi da alcune malattie anche grazie all’immunità preesistente. Cosa significa? L’aver incontrato un agente infettivo in passato, fa sì che il sistema immunitario lo riesca a riconoscere anche a distanza di tempo. Sonia Gandhi, ricercatrice statunitense, ha dimostrato che una certa risposta immunitaria a SARS-Cov-2 può essere indotta qualche volta dal comune Coronavirus del raffreddore.
In Olanda hanno rilevato che nel sangue di alcuni donatori, prelevato dieci anni fa, erano presenti anticorpi contro il SARS-CoV-2. Potrebbe essere accaduto, quindi, che questi donatori abbiano incontrato in passato qualcosa che assomigliasse all'attuale coronavirus sviluppando una protezione verso lìagente patogeno.