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L’economia russa può sopportare una guerra lunga (ma impedisce a Mosca di vincerla)
Luca Angelini
Secondo l'Economist, le sanzioni occidentali non hanno avuto il devastante effetto desiderato. Tuttavia, sarebbe difficile per Putin aumentare lo sforzo bellico in Ucraina evitando disagi e malumori in patria
Funzionano. No, non funzionano. Stanno iniziando a funzionare. No, funzioneranno soltanto fra anni. Delle sanzioni imposte dall’Occidente alla Russia per l’invasione dell’Ucraina s’è detto tutto e il suo contrario (qui l’approfondimento pubblicato pochi giorni fa dal Consiglio europeo). E, visto che ne abbiamo parlato spesso anche in questa Rassegna, vale forse la pena riportare il punto sulla questione che ha provato a fare l’Economist . Il titolo dell'articolo dice già molto: «L’economia russa può sopportare una guerra lunga, ma non una guerra più intensa».
Il settimanale britannico non fa sconti nel giudicare infondati gli iniziali proclami, soprattutto statunitensi, sulla capacità delle sanzioni di mettere rapidamente in ginocchio Mosca: « La speranza che lo stato dell’economia russa avrebbe costituito una qualche forma di limitazione alla guerra è svanita ». Eppure, lo stesso Vladimir Putin ha, di recente, ammesso che gli effetti delle sanzioni occidentali stanno iniziando a farsi sentire. In effetti, ecco il corollario, secondo l’Economist: «La domanda non è tanto se la Russia possa sopportare una guerra di logoramento ancora più lunga (può farlo), ma se può sostenere il tipo di intensificazione del conflitto di cui la Russia avrà probabilmente bisogno per trasformare le sue prospettive sul campo di battaglia. Questo appare quasi impossibile». Potremmo forse tradurre così: l’economia russa non impedirà al Cremlino di condurre una guerra lunga, ma gli impedirà quasi di sicuro di vincerla.
Più nello specifico, a giudizio dell’Economist «la burocrazia russa ha messo a segno tre imprese negli ultimi 14 mesi. Ha trovato il modo di resistere alla raffica di sanzioni annunciata da Blinken (segretario di Stato Usa, ndr). Ha fornito abbastanza uomini e materiale per alimentare l’invasione russa. E tutto questo è stato fatto senza un brusco calo del tenore di vita, che potrebbe provocare disordini popolari. Ma qualsiasi tentativo di intensificare il conflitto annullerebbe inevitabilmente questi successi».
Il settimanale mette in fila tutti i motivi per cui le sanzioni contro Mosca non hanno avuto il devastante effetto promesso: il limitato e talvolta controproducente effetto sugli oligarchi (che in qualche caso hanno potuto appropriarsi di asset lasciati a disposizione dalle aziende occidentali che hanno lasciato la Russia); le misure finanziarie che hanno comunque lasciato aperti alcuni spiragli (vedi il mantenimento di Gazprombank all’interno del sistema SWIFT); gli acquisti di gas e petrolio russi da parte di Cina e India; le immancabili «triangolazioni» per far arrivare in Russia, tramite Paesi terzi, i beni sottoposti a embargo (senza contare che molti Paesi del «Sud globale» hanno rifiutato di adottare le sanzioni); l’ottenimento, grazie agli hacker, di software occidentale per l’aviazione civile russa; le notevoli risorse finanziarie russe, accumulate soprattutto grazie all’export di idrocarburi e altre materie prime.
Ma, al di là del fatto che il calo del prezzo di gas e petrolio sui mercati mondiali renderà più complicato, per il Cremlino, continuare a mantenere i deficit di bilancio entro limiti sopportabili, la spesa militare ha dinamiche sue proprie, che non possono essere aggirate.
Oltre all’intollerabile costo umano, l’invasione dell’Ucraina ne ha imposto anche altri. Le stime del numero di veicoli blindati distrutti durante la guerra, ad esempio, oscillano tra 8.000 e 16.000, secondo un recente rapporto del Center for Strategic and International Studies (Csis). La Russia ha anche perso molti aerei, droni e sistemi di artiglieria. Una soluzione è ripiegare sugli stock esistenti, anche se molti di questi sono vecchi e male in arnese. Un altro è reindirizzare alla prima linea ucraina le armi in passato destinate all’esportazione. Siemon Wezeman di Sipri, un centro studi svedese, calcola che le esportazioni di armi della Russia siano crollate dai 50 miliardi di dollari del 2021 a 11 miliardi di dollari, o forse meno, l’anno scorso. E sottolinea che insoliti carri armati t-90, forse modelli dimostrativi, o unità originariamente destinate all’Algeria, sono stati avvistati sul campo di battaglia in Ucraina.
La Russia sta, però, anche cercando di produrre più armi. L’ex presidente ed ex premier Dmitri Medvedev, oggi vicepresidente del consiglio di sicurezza della Russia, ha di recente sostenuto che il Paese produrrà 1.500 carri armati moderni nel 2023. Funzionari hanno anche affermato che vogliono che i droni vengano fabbricati in massa in Russia. Alcune fabbriche lavorano a ciclo continuo. Il governo presta generosamente denaro ai produttori di armi o ordina alle banche di farlo. A gennaio e febbraio la produzione di «prodotti metallici finiti» è stata superiore del 20% rispetto all’anno precedente, stando alle statistiche ufficiali.
Ma proprio qui, per il Cremlino, iniziano i problemi. Per fabbricare armi avanzate, c’è bisogno di accedere a componenti, di fabbricazione occidentale, “dual-use” (civile e militare) di fascia alta, dai motori ai microchip, che sono difficili da ottenere a causa delle sanzioni. Non si può negare che, per reperirle, Mosca abbia dato prova di inventiva. «A febbraio il governo ha temporaneamente sospeso l’accettazione delle domande di passaporti biometrici per risparmiare microchip. Anche le lavatrici di fascia alta vengono importate in gran numero per essere private dei loro chip, presumibilmente per l’uso in missili guidati e altri kit militari. L’intelligence militare ucraina ha recentemente riferito che ogni mese la Russia riesce a fabbricare circa 30 Kh-101 e 20 Kalibr, i suoi due principali tipi di missili guidati, presumibilmente grazie a tali stratagemmi. Ma i volumi di armi avanzate prodotte non sono affatto vicini a quelli di cui la Russia ha bisogno per rimpiazzare le sue scorte in esaurimento.
Funzionari militari ucraini e occidentali ritengono che la Russia abbia utilizzato la maggior parte delle sue scorte di missili guidati più precisi. I numeri di serie trovati nei resti di missili esplosi suggeriscono che ora ne stia usando di nuovi, realizzati durante la guerra. Gli addetti ai lavori dicono che l’esercito sta chiedendo dieci volte più carri armati di quanto le fabbriche russe possano produrre. La mancanza di software e attrezzature tecniche sembra impedire anche il decollo della produzione russa di droni».
È vero che, come si accennava, Mosca può in parte cercare di supplire alla scarsa qualità degli armamenti con la quantità, svuotando i magazzini bellici figli dell’era sovietica e provando a rimodernare il rimodernabile. Ma, di nuovo, questo sembra poter consentire di proseguire — anche a lungo — la guerra di logoramento, ma non di dare una spallata bellica decisiva.
C’è, poi, la questione reclutamento. Militare ma non soltanto. «Il Paese non sta per rimanere a corto di giovani uomini: prima della guerra ne aveva circa 17 milioni. Ma più ragazzi sulla linea del fronte significa meno di loro negli uffici e nelle fabbriche». Gli effetti sul mondo del lavoro si stanno già facendo sentire. «Nel 2022 il numero di russi occupati di età inferiore ai 35 anni è diminuito di 1,3 milioni, secondo FinExpertiza, una società di revisione. La carenza di lavoratori è diffusa. A dicembre la banca centrale ha affermato che metà delle imprese intervistate faticava a trovare abbastanza personale. Ci sono 2,5 posti vacanti per ogni disoccupato, cosa che rende il mercato del lavoro russo due volte più a corto di manodopera di quello americano.
I salari stanno crescendo rapidamente. Gli specialisti, come ingegneri informatici e avvocati, sono particolarmente scarsi. In una recente riunione del sindacato degli imprenditori russi, la carenza di manodopera è stata l’argomento principale della conversazione». Quanto al reclutamento militare, «più la coscrizione si diffonde nelle grandi città come Mosca e San Pietroburgo, maggiore è la possibilità di disordini popolari». (È il motivo per cui Putin è stato finora molto cauto sulla mobilitazione di massa: lo hanno spiegato bene Andrei Soldatov e Irina Borogan su Foreign Affairs).
L’altra variabile che potrebbe innescare proteste di piazza è un calo drastico dei livelli di vita. Che, finora, Mosca è riuscita ad evitare anche grazie a robuste iniezioni di sussidi e altri aiuti all’economia. Anche in questo caso, però, secondo l’Economist, il governo russo avrebbe molte difficoltà a continuare a farlo nel caso desse il via all’escalation militare che tanti, nei settori politici, giornalistici e militari più nazionalisti chiedono da tempo a Putin. «Il primo problema sarebbe raccogliere soldi in fretta. Non tutte le attività del fondo sovrano sono liquide. Stampare denaro stimolerebbe l’inflazione, facendo perdere valore al rublo ed erodendo gli standard di vita che il governo ha lavorato così duramente per preservare. Caricare da un giorno all’altro le banche con enormi quantità di debito pubblico potrebbe avere un effetto simile, suscitando dubbi sulla solidità nella gestione dell’economia. Aumenti delle tasse o un forte spostamento della spesa pubblica verso la difesa andrebbero a intaccare anche i redditi personali. E ognuna di queste misure minerebbe l’aria di calma, controllo e stabilità che Putin si sforza di mantenere».
Può darsi che il cambio di tono nella retorica del leader del Cremlino, passato dall’«operazione speciale» in Ucraina alla «minaccia esistenziale» che l’Occidente porrebbe alla Russia, serva a preparare il popolo russo a sopportare sacrifici pesanti. L’Economist riporta, però, anche una recente frase di Putin: «Naturalmente, la difesa nazionale è la massima priorità, ma nell’assolvere compiti strategici in questo settore, non dovremmo ripetere gli errori del passato e non dovremmo distruggere la nostra stessa economia». Come accaduto, sottinteso, ai tempi dell’Unione sovietica.
Tutto questo sembra spiegare perché il citato rapporto del Csis concluda ipotizzando che «considerando le capacità e i limiti attuali della Russia, essa probabilmente opterà per una campagna di logoramento a ritmo più lento in Ucraina». E perché l’Economist aggiunga: «Putin è riuscito a tenere al riparo l’economia russa dai peggiori effetti della guerra e delle sanzioni – ma in un modo che rende la guerra difficile da vincere».