Fosse stato un film, ci sarebbe stato un borgataro tatuato, un Jeeg Robot coatto e risoluto, e si sarebbe fermato magari mettendo mano al crick per sicurezza. Avrebbe aperto lo sportello a quella bionda che chiedeva aiuto alle tre di notte nel buio di una strada deserta. Sara Di Pietrantonio, la ragazza uccisa e bruciata dall'ex in via della Magliana, sarebbe ancora viva. Ma non era un film, e nessuno si è fermato. Non il bullo della legittima difesa, non l'equo-solidale, non il leone da tastiera che invoca ruspe per i delinquenti, né il buon samaritano del 5x1000 alla Caritas, né l'ultras, né il giovinastro con lo stereo a tutto volume o il camionista che è facile immaginare su quella via di periferia, a quell'ora tardissima, di ritorno da una notte brava o da un lavoro molto duro. Così, la fine orribile di Sara inghiotte l'onore di un'intera città: Roma si sapeva cinica, svogliata, abituata a tutto, ma si immaginava ancora coraggiosa e svelta, soprattutto davanti a una bella ragazza. La Roma di Rugantino «er duro, cresciuto a forza de sventole». E invece eccola qua Roma: pure vigliacca.
Psicoanalizzare una città forse non è possibile, ma si dovrebbe farlo per tentare di risalire le tracce dei traumi all'origine di questa Roma irriconoscibile. Il primo: le conseguenze nell'immaginario collettivo del cosiddetto “allarme sicurezza”, che a forza di gonfiarlo è diventato un mostro che paralizza le coscienze anche di chi non ci crede poi tanto. Dietro ogni grido, ogni movimento brusco sul marciapiede, vediamo pazzo con l'ascia che fa strage di passanti, il cileno col machete alla cintura, lo zingaro rapitore, la banda cocainomane, il torturatore psicotico. Poi, magari non è niente. E' una ragazza che scappa, e il suo ex folle di gelosia con una bottiglia di alcool in mano. E' uno di quei drammi di periferia in cui basterebbe una faccia decisa, un «Sali e andiamocene», un «Che cazzo fai, chiamo la polizia», per chiudere la storia. Ma Roma ormai ha molta paura e non sa più distinguere. E il romano “de core”, il romano che non si tira indietro, fa finta di non vedere. Meglio non impicciarsi.
Alcuni anni fa ci fu un altro delitto che scosse la città, anche quello alla vigilia di una campagna elettorale molto incerta. La signora Giovanna Reggiani, di 47 anni, fu aggredita, violentata e uccisa poco dopo le sette di sera vicino alla stazione Tor Di Quinto da un muratore rumeno. Roma si arrabbiò e si indignò moltissimo, come era giusto. Scoprì la realtà intollerabile delle baraccopoli di periferia, con la loro fauna umana di disperati ubriaconi. Ne spianò alcune con i caterpillar. Ne spostò altre fuori dal Raccordo. Partì da lì il tam tam che in dieci anni è diventato un'ossessione cittadina. E la percezione del pericolo è salita a livelli di terrore: a forza di sentirci ripetere “sono tanti, sono ovunque, sono pronti a tutto”, lo pensiamo davvero e il coraggio minimo di fermarsi e vedere che succede, o anche solo chiamare il 113, è stato cancellato giorno dopo giorno, senza rimedio.
L'altra pista, l'altro sentiero da percorrere per capire perché a Sara nessuno ha aperto lo sportello, è più antico. Una donna giovane, bionda e disperata che chiede aiuto in una strada semi-disabitata a tarda notte, è una puttana straniera o una tossica, quindi umanità di seconda categoria, vita che non vale il rischio. Questo si dice Roma, questo si dice l'operaio che percorre la Magliana alla fine del turno di notte, o il ragazzo stordito dalla musica che torna dalla festa, questo si dice la città che una volta si mischiava senza problemi con il mondo border-line della sua millenaria esistenza di metropoli, interclassista e aperta come nessun'altra, e ora è torva e accidiosa nel distinguere il “noi” e il “loro”. Noi, i regolari e i normali che stanno tornando a casa. Loro, le schiave sedute sui cartoni al bordo delle consolari, che regolano i loro conti misteriosi col coltello o col fuoco, gente di serie B di cui nessuno si impiccia: non la polizia, non la pubblica assistenza, non l'istituzione, e figuriamoci se deve farlo il privato cittadino che morto di sonno guida lento sognando la casa, il letto e una grandissima dormita.
Fosse successo altrove, nelle piccole città della provincia italiana dove il farsi gli affari propri è regola di sempre, la cosa colpirebbe di meno. A Parma, qualche giorno fa, un marocchino vedovo e padre di un bambino è stato torturato per un'ora e ucciso da due stimati italiani perchè non pagava l'affitto. Ha gridato molto, nessuno ha chiamato il 113, la notizia quasi non è uscita sui giornali. A Torino, in marzo, un pensionato sessantenne ha sgozzato un trentenne rumeno ai giardinetti di Barriera di Milano, molto frequentati di notte, senza che nessuno si mettesse in mezzo. Ma è Parma, è Torino, e questo mood non sembrava appartenere a Roma. Soprattutto se la vittima è una ragazza minuta e molto giovane, Roma la immagini con l'orgoglio del “fatece largo che passamo noi” e l'idea che non ci sia stato neanche il coraggio di una telefonata è orribile e stupefacente perchè contrasta con tutto ciò che i romani raccontano di loro stessi da qualche secolo, con la percezione di se' che l'intera città coltiva.
E però Sara è stata lasciata lì. E nei dibattiti in rete la gente chiede irritata a chi protesta: perchè, tu ti saresti fermato? E i giornali cercano citazioni colte – la banalità del male, l'inferno dei viventi – per spiegare l'importanza del gesto compassionevole, come se ci fosse bisogno di riferimenti letterari per descrivere l'istinto minimo, naturale, dell'aiuto a una persona che grida terrorizzata sull'asfalto. Se la città ha perso quel riflesso pavloviano, siamo tutti fritti. E non basterà l'esercito per le strade, il filo spinato nelle periferie, la videosorveglianza ovunque, un milione di centri anti-violenza o Marco Aurelio sindaco per salvarci, che ci saremo impiccati da soli ai nostri fantasmi, ai nostri pregiudizi, alle nostre paure.