Game of Thrones è quasi arrivato al capolinea, e lo ha fatto dopo aver iniziato a correre disperatamente appena prima della curva che portava al traguardo del finale di serie. Lo show ha perso il suo ritmo compassato – quello grazie al quale aveva creato un world-building granitico fatto di personaggi credibili e sviluppi narrativi plausibili – ed ha perso tanti pezzi per strada. E per “pezzi” non intendo solo i personaggi inevitabilmente portati via dal Dio della Morte, ma anche gran parte della solide fondamenta narrative su cui la serie era stata impostata (e si era retta) fino all’inizio della settima stagione.
Nonostante draghi, gente che resuscita e streghe pluricentenarie con l’aspetto di appetibili milf, Game of Thrones aveva sempre portato avanti una filosofia poco televisiva e molto romanzesca: ci voleva tempo per veder maturare i personaggi, ancor più tempo per stravolgere gli equilibri di potere. Adesso, invece, nel giro di un episodio, quella che fino a 5 minuti fa era la salvatrice della patria – la socialista Daenerys votata alla liberazione degli schiavi e alla difesa degli oppressi – è diventata il più grosso assassino di massa dei Sette Regni.
Intendiamoci: che Danerys diventi folle, che distrugga Approdo del Re e lo faccia in modo ancor più meschino dopo che le campane suonano la resa, è giusto e funziona. Che da nemico della tirannia diventi lei stessa un tiranno sanguinario ci sta tutto. Ma non può succedere così in fretta. Facciamo un passo indietro di appena due settimane: nell’episodio 8×02 la troviamo ancora fidanzatina felice che limona col suo Jon dopo una gitarella in volo sul dorso dei draghi, e nell’episodio 8×03, la Lunga Notte, c’è stato ben poco spazio per le chiacchiere. I primi segni di rosicata Daenerys li ha iniziati a manifestare nello scorso episodio (l’8×04 The Last of The Stark), probabilmente quello scritto peggio dell’intera serie.
Come scrivevo la scorsa settimana, questa stagione è stata impostata su due punti fermi: la Lunga notte dell’episodio 3 e la caduta di Approdo del Re nell’episodio 5. Quello che c’era in mezzo, eventi per il cui sviluppo ci si prendeva tutto il tempo necessario (anche intere stagioni), vengono compressi a calci in culo in un minutaggio troppo ristretto, dando a Game of Thrones un ritmo che non gli è mai appartenuto. Paradossalmente, questa svolta più televisiva e commerciale, quasi da pop corn movie che predilige l’azione alla narrazione, non solo non è piaciuta alla nicchia di appassionati che hanno letto i libri di Martin o che, più in generale, masticano fantasy, ma non è piaciuta nemmeno al pubblico generalista (ormai GoT è una serie parecchio trasversale che viene vista dalle più disparate categorie di spettatori).
Si è arrivati a questo collo di bottiglia per vari motivi: HBO avrebbe voluto una nona stagione (e lo credo visto il successo della serie) ma nel 2016 Weiss e Benioff hanno deciso di chiuderla con 13 episodi, 7 nella settima stagione e sei nell’ottava perché, dicevano, “sappiamo quante ore servono per chiudere lo show”. Probabilmente il motivo è che avevano anche deciso di dedicarsi ad altro (la serie HBO Confederate già annunciata, ed il progetto legato a Star Wars per Lucasfilm, probabilmente addirittura una trilogia di film). All’inizio avevo accolto come una buona notizia la chiusura alla stagione 8: niente stiracchiamenti e via verso la naturale conclusione E INVECE NO. Il budget per le battaglie ha reso impossibile la realizzazione di un numero di episodi sufficiente per chiudere al meglio le tantissime storyline di tutti i personaggi e così è stato ammucchiato troppo materiale in troppo pochi di episodi. Si è rivelato un grosso errore.
Non faccio il produttore esecutivo, né lo sceneggiatore e non voglio mettermi a fare come quelli che si credono allenatori quando guardano le partite di calcio (che poi Allegri magari si incazza), però posso dirvi quello che, col senno di poi, avrei voluto vedere da spettatore. Un’ottava stagione di 6 episodi che culminasse con la Lunga Notte, ed una successiva stagione di altri 6 episodi in cui, invece, sviluppare la Grande Guerra. Il modo migliore per dare dignità e credibilità ai due archi narrativi, accompagnando anche il progressivo cambiamento di Daenerys.
Riflettendoci bene: alla puntata in sé, invece, c’è poco da rimproverare. La regia è eccellente, anche i momenti più concitati sono sempre puliti e chiari, così come efficacemente claustrofobiche sono le sequenze con Arya e la folla impazzita in fuga dal fuoco di Drogon. Però non riesco a non avere una punta di dispiacere per come si è arrivati a questo punto. Se si fosse giunti a questo episodio in modo narrativamente più armonioso con quello che Game of Thrones è stato nelle sue prime 6 stagioni, la distruzione di Approdo del Re me la sarei goduta di più.
Si corre come forsennati, gli equilibri in campo mutano in un battibaleno spostando le pedine in campo in modo funzionale al raggiungimento dello scopo narrativo, senza però che ci sia una logica alla base. Nello scorso episodio gli Uomini di Ferro di Euron erano imbattibili contro due draghi ed una flotta di navi di Immacolati, oggi sembravano delle barchette di carta contro un solo drago a cui è bastato arrivare in controluce. Dopo la Lunga Notte, i Dothraki erano decimati, così come gli Immacolati (che, oltre alla battaglia contro gli Estranei, avevano subito significative perdite in mare nello scorso episodio). Adesso invece sono millemila miliardi (guardate l’immagine qui sotto presente nel promo del prossimo episodio). Gli Immacolati sono organismi monocellulari che si dividono per mitosi? Sono come i Mister Miguardi di Rick & Morty? O come i mostri di quei film di fantascienza in cui ne uccidi uno e diventano due?
Ecco, non c’è coerenza in tutto questo. Le cose succedono perché sì e gli Immacolati sono sempre in un numero proporzionale alle esigenze di trama di quello specifico frangente. Al tempo stesso i 20mila uomini della Compagnia Dorata – che non si capisce perché siano stati inseriti nella serie TV se spogliati del significato narrativo che hanno nei libri (vedi alle voci: rivoluzione dei Blackfyre, Jon Connington e Griff il giovane) – si dimostrano come un macchiettistico e malriuscito ibrido tra un plotone di Stormtrooper e un gruppo di maglie rosse di Star Trek. Forse se avessero avuto gli elefanti che chiedeva Cersei…
Ma soprattutto – incredibile a dirsi, ma è così – la serie avrebbe avuto bisogno di molti più dialoghi che contano per far maturare nel migliore dei modi il finale. I pochi scambi significativi – Tyrion e Cersei alla porte di Approdo del Re, Sansa e il Mastino a Grande Inverno, Arya e il Mastino nella Fortezza Rossa – sono stati rari momenti in un mare di pedine che si spostavano freneticamente. Nel mezzo, il rapporto di amore mutato in invidia di Daenerys nei confronti di Jon non può essere stato gestito in un arco temporale così breve, stravolgendo in un episodio il lavoro fatto sul personaggio nelle precedenti 7 stagioni.
Quindi tirando le somme: l’episodio in sé sarebbe grandioso ma mi risulta difficile godermelo per le premesse con cui ci si è arrivati. Che Daenerys diventi la mad queen va anche benissimo, il problema semmai è che lo diventa nel giro di 5 minuti.