«Terapie intensive per il Covid: ecco cosa sta succedendo»
Il prof Massimo Antonelli (Cts): abbiamo acquisito nuove conoscenze. Decisive protezioni e distanze, pronti a riaprire reparti speciali
«Regge bene la rete delle terapie intensive grazie all’organizzazione che ci siamo dati. I ricoverati non sono aumentati in modo significativo». Non fa il catastrofista Massimo Antonelli, direttore dipartimento Anestesia e Rianimazione del Policlinico Gemelli, una delle punte di diamante del Comitato tecnico scientifico per l’emergenza Covid-19, il Cts. I casi di nuovi positivi sono ormai diverse centinaia al giorno, ma il servizio sanitario sta dando «prova di resilienza».
I ricoveri in terapia intensiva sono in leggera salita. Ci dobbiamo preoccupare?
«C’è una leggera crescita ma proporzionale all’aumento dei nuovi casi e comunque non preoccupante.
Anche i malati gravi sono in numero minimale. La percentuale rispetto ai positivi è sotto l’unità, mentre nel periodo acuto dell’epidemia era del cinque per cento. In Italia nei centri di rianimazione sono ricoverati poco più di 50 persone».
Il virus è meno letale come sostiene qualcuno?
«Forse è così ma soltanto perché l’età media dei contagiati si è abbassata attorno ai 35 anni, fenomeno legato alle abitudini di vita sociale dei giovani che ha determinato una diffusione rapida del virus. Il Sars-CoV 2 circola e, senza distanziamento, basta avere contatti brevi, anche di 15 minuti, con un soggetto infetto per esserne colpiti. Per questo continuiamo a raccomandare di osservare le misure di precauzione che non impongono grossi sacrifici. Indossare mascherina, evitare assembramenti e igiene accurata e costante delle mani richiedono solo buon senso. Nelle terapie intensive i casi severi sono la minoranza e d’altra parte le risorse del servizio sanitario nazionale sono tali da assicurarci una certa tranquillità».
I giovani possono aggravarsi?
«Sì, non sono esenti specie se soffrono di altre patologie, come il diabete. In una recente pubblicazione è stato dimostrato che aver avuto nella stagione invernale altre malattie da virus, anche l’influenza, può favorire l’evoluzione negativa del Covid-19 verso la polmonite. Ora però con l’esperienza guadagnata si è in grado di trattare più precocemente ed efficacemente i pazienti critici, riuscendo spesso ad evitare l’intubazione e la ventilazione invasiva».
L’età media in terapia intensiva si sta ulteriormente abbassando?
«Si, la forbice è 40-60 con la tendenza a scendere verso i 40 anni».
Durante l’emergenza di marzo/aprile è apparsa chiara la carenza cronica di posti di terapia intensiva. Ora siete pronti ad affrontare un nuovo, eventuale ritorno dell’ondata?
«Decisamente sì. Le risorse ci sono e abbiamo acquisito conoscenze sui trattamenti efficaci. I malati vengono diagnosticati precocemente dalle strutture territoriali, unitamente ad un efficace contact tracing, è cambiata la filosofia. I posti letto di terapia intensiva sono passati da 5.300 a 8.000 e sarebbero sufficienti per sostenere un secondo impatto. Il numero di letti intensivi è passato da 12 a 14 ogni 100.000 abitanti. Sembrano piccoli numeri, invece significano avere la consapevolezza di poter intervenire con tempestività in qualsiasi momento. Il Dpcm del 19 maggio ha anche programmato lo stanziamento di fondi per risolvere le carenze di organico di infermieri e anestesisti rianimatori. Ci sarà dunque una maggiore disponibilità di posti letto anche in tempi normali, extra Covid».
I Covid hospital sono stati dismessi una volta calata la pressione?
«No, anche se si sono svuotati di malati con Sars Covid 2, sono pronti a rientrare in azione in qualsiasi momento grazie a un’organizzazione capace di restare operativa 24 ore su 24. I Covid hospital serviranno ad evitare che i malati contagiati convergano in ospedali non dedicati col rischio di contagio per i pazienti con altre patologie. Nel frattempo si assicura adeguato spazio assistenziale ai malati non Covid».