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GAZA – PUNTINI SULLE “I”
Okay, provo a dire la mia sulla situazione a Gaza, all’indomani della conclusione della sceneggiata della Somud Flotilla e del piano di Trump. Non l’ho fatto prima soprattutto in quanto c’è ben poco di militare da analizzare da quando l’Iran è stato neutralizzato, e anche perché sono piuttosto disgustato dal comportamento di tutti gli attori di questa tragedia politica.
Di fatto, l’unico attore esterno in grado di fare qualcosa, a causa dell’influenza accumulata tanto su Israele che sui Paesi Arabi, era il POTUS: chiunque egli fosse. E anche lui poteva far valere la propria influenza solo dopo che gli attori principali avessero ottenuto il massimo possibile dalla situazione, giocando tutte le carte del mazzo fino a esaurirlo. Saggio quindi per Italia ed Europa restarne fuori ed evitare di esporre la propria irrilevanza.
Il “piano di pace” ovviamente è solo un progetto volto a far cessare il fuoco e a stabilizzare in qualche modo la situazione nella Striscia: non ha niente a che vedere con una pacificazione del conflitto israelo-palestinese, e men che meno del Medio Oriente. Insomma: è una soluzione provvisoria, e non potrebbe essere altro, visto che il conflitto non può essere risolto a meno che entrambi i contendenti accettino di risolverlo; cosa impossibile stante la radicalizzazione di larga parte delle popolazioni in gioco.
Però per cercare di capire la situazione e quindi le prospettive future occorre mettere in chiaro alcuni aspetti che molti sembrano ignorare, ma che condizionano entrambe le cose.
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Innanzitutto, i contendenti. Israele ha da tempo una maggioranza politica che ha alterato l’originale natura laica dello Stato, privilegiando le istanze religiose più estreme per mantenere il potere, e rendendo di fatto impossibile un accordo con qualsiasi rappresentanza i palestinesi avessero potuto mettere insieme; Israele è una democrazia, seppure a rischio a causa delle componenti più estremiste del suo spettro politico, e finché non ritroverà una maggioranza politica disposta al dialogo – e quindi a rinunce inaccettabili per le componenti estremiste – un dialogo veramente orientato ad un effettivo piano di “Pace” non sarà possibile.
I Palestinesi, controparte generica ma imprescindibile per una trattativa, non hanno una rappresentanza riconosciuta e condivisa: esiste l’ANP in Cisgiordania e Hamas nella Striscia; le due organizzazioni hanno poco o nulla di democratico, sono poco o nulla affidabili, ma soprattutto sono nemiche una dell’altra. Non “avversari”, ma “nemici”. Nemici mortali. Questo per la diversa natura dei partiti politici che dominano le due organizzazioni: al-Fatah, padrone dell’ANC, è un partito laico, particolarmente prono alla corruzione e all’autoritarismo come la maggior parte dei partiti arabi, ma formalmente al potere grazie ad elezioni più o meno riconosciute come regolari. Hamas è un partito religioso, al potere in forza di una sola elezione dopo la quale ha annullato il processo elettorale e ha eliminato manu militari l’opposizione (rappresentata dalla stessa al-Fatah). Hamas è l’attore che ha dato il via all’attuale fase del conflitto israelo-palestinese.
Hamas non è semplicemente un “partito religioso”: è il franchise palestinese della Fratellanza Musulmana, che a sua volta costituisce il Partito Transnazionale rappresentazione politica del salafismo integralista arabo-maghrebino. In sostanza è una contraddizione in termini, in quanto l’integralismo salafita postula la superiorità della legge religiosa su quella civile, e quindi nega il processo democratico. Semplificando drasticamente, il programma politico dei Fratelli Musulmani consiste nel pervenire al potere sfruttando le regole democratiche per poterle poi abolire una volta che il potere sia stato raggiunto. In sostanza, instaurare la sharia senza ricorrere alla “Jihad”.
Se si capisce quanto sopra, si capisce anche come “trattare” con Hamas una “Pace” sia esercizio futile: tutt’al più si potrà trattare una tregua, in quanto il programma della fratellanza Musulmana è l’installazione della sharia su tutta la “Ummah”, cioè sulla totalità del popolo musulmano E DEI TERRITORI APPARTENENTI O APPARTENUTI ai musulmani, incluse Spagna e Sicilia, per non parlare della totalità della Palestina. Si capisce pertanto come tanto l’Occidente che Israele abbiano convenienza a trattare con l’ANC piuttosto che con Hamas.
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La fase attuale del conflitto di Gaza contrappone Israele (governato legittimamente da una maggioranza estremista aggrappata al potere) e i palestinesi di Gaza (governati illegittimamente da un partito religioso intransigente e integralista). Si tratta di un conflitto ormai da oltre un anno privo di dimensione militare: Hamas disponeva di una componente paramilitare fanatica, che però è stata letteralmente sterminata dalle IDF (Forze Armate) israeliane, ma ormai da molti mesi “combatte” a livello terroristico e non militare, nascondendosi e mimetizzandosi in una popolazione in parte passiva e in parte compiacente, facendo del suo meglio per esasperare i danni collaterali da parte delle truppe israeliane per ottenerne un ritorno politico.
Discernere la componente compiacente da quella passiva della popolazione di Gaza è praticamente impossibile. Ma di fatto l’avversario delle IDF non è più Hamas in quanto tale, e ovviamente non sono neppure i gazawi in quanto tali: è la componente compiacente della popolazione che sostiene ancora il partito politico di Hamas. Insomma: l’avversario è una componente della popolazione; non si può combattere militarmente una componente di popolazione, soprattutto se frammischiata ad un’altra che non si vuole combattere (quella passiva, che seppure in maniera approssimata è facile immaginare largamente maggioritaria).
A complicare ulteriormente le cose, è la natura delle IDF stesse. Israele ha dieci milioni circa di abitanti: essendo un Paese sostanzialmente in guerra da sempre, ha necessariamente un esercito numeroso, che inevitabilmente è basato sulla leva e sulla mobilitazione. Le IDF sono fra le Forze Armate più esperte e rodate del mondo, ma solo una loro minima componente è professionale come la intendiamo in Europa: lo Stato Maggiore, le Forze Speciali, l’Aeronautica, le varie componenti specialistiche, sono fra le migliori del mondo; le forze di sicurezza sono un misto di professionisti e di richiamati esperti; ma la massa delle truppe di terra dell’esercito sono soldati di leva richiamati, comandati a loro volta sul terreno da ufficiali di complemento non professionisti. Insomma: i soldati delle IDF in campo a Gaza sono sostanzialmente cittadini-soldati addestrati a combattere contro gli eserciti arabi, ma con un’esperienza molto limitata nella condotta di quelle operazioni sostanzialmente di polizia che andrebbero condotte a Gaza per controllare una popolazione magari riottosa ma disarmata. Peggio ancora, trattandosi di cittadini-soldati, molti fra di loro hanno idee politiche ben precise, che sovente sono quelle dei partiti estremisti sui quali il Governo attuale appoggia la sua traballante maggioranza. Soldati poco addestrati al compito e politicamente maldisposti verso la popolazione che devono controllare e nella quale si celano ancora molti terroristi, sono gli ingredienti classici per danni collaterali inaccettabili e perfino per crimini di guerra che le autorità israeliane non vogliono – e in larga misura non possono – contrastare.
Quella a Gaza non è una “guerra”: è una crisi umanitaria priva di soluzione militare, e che deve essere affrontata e risolta da politici che però hanno posizioni radicali intransigenti su base religiosa. Rimane quindi solo la soluzione diplomatica imposta da attori esterni e contrattata con quella delle parti in conflitto che ha la possibilità di cessare unilateralmente la violenza, e cioè Israele, a patto che questo riceva qualcosa in cambio.
Questo è possibile grazie al fatto che la Fratellanza Musulmana ha uno sponsor (in realtà ne ha due, ma non complichiamo ulteriormente le cose). Nemmeno un partito transnazionale su base religiosa può operare senza il sostegno economico di uno Stato. Lo Stato che da almeno trent’anni sponsorizza la Fratellanza è il Qatar. Le ragioni sono molteplici, ma semplifichiamo dicendo che la Fratellanza è lo strumento attraverso il quale il minuscolo Qatar può trattare alla pari con la potente Arabia Saudita ed evitare di esserne assorbito.
Israele non può “vincere” a Gaza se il suo vero avversario è una componente della popolazione stessa della Striscia; ma il suo Governo non può fermarsi senza poter vantare una “vittoria”, e questa ormai può essere rappresentata solo dalla liberazione degli ostaggi. Hamas non può liberare gli ostaggi senza perdere definitivamente rilevanza, e l’unico modo per costringerla a farlo è la pressione del suo sponsor. Quindi la vera pressione diplomatica è, era ed è sempre stata quella sul Qatar.
Ora, il piano di Trump in realtà è ben poco dissimile da quanto proposto in precedenza da Biden, ma questa volta ha l’approvazione di tutti gli Stati Arabi, Qatar compreso. Quindi tocca ammettere che qualcosa è cambiato con Trump. Cosa?
Fin qui ho semplicemente elencato fatti, ma qui cessano le mie certezze. La mia impressione però è che a cambiare l’atteggiamento del Qatar passando da una buona volontà di facciata ad una collaborazione attiva sia stato il bombardamento aereo della sua capitale da parte israeliana: bombardamento reso possibile non solo dall’autorizzazione americana, ma soprattutto dalla collaborazione attiva da parte degli altri Paesi Arabi che di fatto hanno concesso il sorvolo. Insomma: il Qatar è stato bullizzato.
Se è così, forse questa volta il bullismo in diplomazia ha avuto un risvolto positivo. Nel Medio Oriente purtroppo funziona ancora così.
ORIO GIORGIO STIRPE