182 ore e 10 minuti, per l’esattezza. Intervallate con diversi altri giochi nell’arco di un anno e mezzo. “Eh, bravo scemo.” No, aspettate, c’è anche un motivo.
Ho voluto trattare questo gioco come ho trattato The Witcher 3, Cyberpunk 2077 e Kingdom Come Deliverance perché ho concluso che se lo meritasse. Io, di questi giochi, ho voluto vedere proprio tutto. Ogni singola quest, ogni contenuto, ogni file da leggere, ogni pezzo di equipaggiamento, ogni possibilità di gameplay. D’altro canto sono la stessa persona che ha smesso con Assassin’s Creed dai tempi di Brotherhood e sto bene così. Penso quindi di avere anche degli aspetti un po’ “choosy” per quel che riguarda gli open world. Più di quanto concerne altri generi. Eppure, eppure… penso che Horizon: Zero Dawn sia un’opera d’arte di grande spessore in questa nicchia e ora tento di raccontarvi perché.
Sapendo come funziona in generale con i giochi “pop” sono abituato a scegliere da principio il livello di difficoltà più avanzato, sperando che la sfida riesca a perdurare di più. Beh, con i giochi Sony relativamente recenti sono stato accontentato. God of War 2018 mi ha dato tra le boss fight più emozionanti della mia carriera di gamer con le valchirie. Tuttavia mi faceva un po’ dissonanza vedere un personaggio come Kratos venire steso malamente anche da dei semplici scagnozzi della prima ora. Parliamo, letteralmente, di un dio.
Days Gone mi ha dato la vera ansia di essere inseguito da un’orda a bordo di un mezzo agile, ma con cui è anche facile commettere errori. Sono rimasto tuttavia perplesso dagli scontri con avversari umani, che a quel punto diventavano irragionevolmente robusti nel contesto narrativo del gioco.
Horizon è ludonarrativamente perfetto nella sua modalità più ostica
Horizon invece è ludonarrativamente perfetto nella sua modalità più ostica. Siamo in un futuro dove la società è regredita al tribalismo e il mondo è dominato da quelli che, essenzialmente, sono dei terminator. Archi e frecce contro acciaio. Ci sta che i nemici siano durissimi e che lo rimangano. Questo cambia anche un elemento essenziale di gameplay, perché hackerare le macchine nemiche diventa non la strategia consigliata, ma pressoché l’unica possibile in molte situazioni. Se portare un robottone dalla nostra parte risolve tutto, fantastico. Altrimenti si spera che abbia almeno ammorbidito gli altri cattivoni.
Ora, questa dinamica è riuscita a persistere dall’inizio alla fine del gioco. Migliorano le armi, i costumi (qui ci torniamo tra poco), le abilità, si può sopravvivere di più, si possono recuperare più situazioni disperate, si può persino sperare di andare più mano a mano contro alcune macchine. Ma nulla cambia la verità universale di partenza: umani regrediti al tribalismo contro terminators. Che mi hanno tenuto sveglio dall’inizio alla fine.
Ma c’è un’altra cosa interessante: ai tempi dell’uscita ci fu uno scambio di artwork tra i ragazzi di CD Projekt Red e quelli di Guerrilla Games ed effettivamente, pur con suggestioni artistiche molto diverse, i 2 giochi sono entrambi opere mastodontiche che in alcuni momenti hanno intuizioni simili. Forti anche del fatto che, al netto della sua ambientazione, Horizon risponde alle strutture narrative del fantasy classico.
IL NEMICO VA STUDIATO
Ma proprio letteralmente. È ormai noto che i witcher sono cacciatori di mostri professionisti e che questo significa anche sbattere mostri su un tavolo e dargli un’occhiata in stile autopsia. Dal bestiario poi potevamo verificare i vari punti deboli di ciascuna creatura e poi agire da perfetti pianificatori con il veleno giusto, i segni giusti, sapendo come si sarebbe mosso.
Il combattimento si basa sullo staccare dalle macchine i pezzi giusti
Horizon propone questa dinamica dal minuto uno, ricoprendo le varie macchine di placche di corazza e strumenti utili, ma sensibili. Mentre le placche possono essere staccate semplicemente picchiandole e/o colpendo con munizioni soniche adatte allo scopo, i pezzi speciali sono un’altra storia. Alcuni possono essere più sensibili al fuoco, altre al ghiaccio, altre ancora all’elettricità. Staccandoli, il nemico di turno perderà la mossa connessa a quell’atrezzatura e come se non bastasse, il danneggiamento potrebbe causare utili esplosioni e cortocircuiti vari.
Fino a ridurre tutti a dei berserker che caricano a testa bassa. Che non significa che il pericolo sia finito, eh. Ma questo per dire che, dal momento che la difficoltà rimane costante, lo è anche la necessità di valutare bene come agire. Non è detto che spogliare alcuni bestioni di tutti i loro gadget sia sempre l’idea migliore.
IL PELLEGRINAGGIO VA PERCORSO
In occasione dell’uscita di Dragon’s Dogma 2, qualcuno che non è l’ultimo venuto, disse che se i giocatori usano il viaggio rapido allora significa che il mondo di gioco non ha molto da dire in partenza. Mi ritrovo abbastanza, anch’io preferisco non utilizzarlo se non giustificato da ragioni ludonarrative. E infatti in Horizon: Zero Dawn l’ho utilizzato davvero pochissimo. Perché in questo gioco è proprio divertente andare in giro e alcuni percorsi hanno una solennità che sfiora lo spiriturale. La prima volta che attraversiamo il Cut per congiungerci con la tribù Banuk è meravigliosa e non tutti ne abbiamo neppure la stessa esperienza.
Alcuni percorsi hanno una solennità che sfiora lo spirituale
Per me ingame era notte, la mappa era ancora nuova quindi sono in modalità “vado dritto fino al prossimo avamposto abitato”. Ed effettivamente lo trovo. C’è solo un problema: avevo optato per un percorso in alta montagna e il villaggio invece è a valle. Un tripudio di luci soffuse ammantate dalla foschia, una discesa ripida da studiare, volta celeste e accenno di aurora boreale sopra di noi. Peccato non aver pensato alla modalità foto, non sono mai più riuscito a replicare quel momento.

Scorci bellissimi in cui “non succede niente”. Non c’è davvero qualcosa da fare tra questi scheletri di edifici. La bellezza naturalistica di Horizon si manifesta costantemente.
Horizon è sia pericoloso da percorrere che bello da vivere. Le ambientazioni sono paradisiache, con le poche spoglie del mondo precedente ormai completamente riconquistate da una natura forte, colorata, potente. Lungo la campagna principale vi saranno dati i dovuti spiegoni su perché è così, in un segmento narrato tramite file da leggere e registrazioni da ascoltare che paradossalmente è riuscito meglio della parte prettamente cinematografica. Le piccole storie di cui troviamo le vestigia, così come la rivelante cronaca del passato sono scritte in modo piacevole e riescono a dare l’effetto “tassello dopo tassello“ che aiuta l’universo a raccontarsi.
LA CAPITALE VA VISITATA
C’è quell’archetipo fantasy della “capitale”. Baldur’s Gate dell’omonima serie, Novigrad di The Witcher 3, Zion di Matrix, Gondor di Lord of the Rings… quei posti di cui si sente parlare e si lascia spazio all’immaginazione. Sono distanti, senti gli echi delle loro storie e ti domandi cosa c’è di vero. Poi arriva il momento in cui la vicenda porta proprio lì e wow, forse anche nelle più accese fantasie te l’eri immaginata più piccola. O comunque “meno” in qualcosa. Proprio come Novigrad nella saga del nostro wiccio preferito, arrivare a Meridian è un momento importante. Non perché accade qualcosa di epico subito, ma proprio per il senso del sublime, del sentirsi piccoli rispetto all’opera umana che ha attraversato generazioni.
Per quanto provi a immaginarti la capitale, a volte ti sorprende comunque
Meridian si pone come un luogo che ha saputo analizzare il comportamento delle macchine e costruire nel punto a loro meno favorevole: un altopiano, riempiendolo totalmente. Nessun nemico di Horizon è un bravo scalatore e la città sorge proprio nel luogo meno attaccabile. Ci sono sì i robottoni uccello, ma conoscendoli come l’unica minaccia è anche facile organizzare contromisure. Approcceremo Meridian da fuori, da perfetti stranieri, passando prima dal vederla in lontananza, poi attraverso i campi coltivati a valle, poi nel villaggio adiacente e solo dopo diversi minuti di cammino utilizziamo uno degli enormi ascensori che portano alla città alta.

Ma anche le megastrutture naturali non scherzano. I giraffoni possono aiutarci a fare un giro panoramico.
La soundtrack non è da meno, proponendo in entrambi i casi un accompagnamento energico, solenne, motivante, in una vicenda che altrimenti tende ad andare in situazioni molto serie. C’è un impero potente e ne siamo un piccolo ingranaggio. Forse però è il caso di integrarsi un po’…
L’ABBIGLIAMENTO VA CURATO
L’abito non fa il monaco, ma il pregiudizio si fa entro i primi 5 secondi. Devo ancora trovare un immersive sim dove gli abiti possano influire sull’esito di qualcosa. Vero che, nel gaming come nella realtà, non sono quelli la sostanza di un personaggio. Però fa comunque ben strano non scatenare reazioni o sopracciglia alzate persino nel più ovvio dei contrasti. Sempre sia lodato Kingdom Come, dove almeno quando puzzavo, Theresa me lo faceva notare. Vedi che succede a dormire con i vestiti addosso?
Comunque, ho deciso che quando il gioco mi suggerisce delle impronte culturali, le seguo. Cyberpunk 2077 proponeva 5 slot costumi da preparare in anticipo ed ecco che avevo il completo da Badlands, quello da Netrunner, quello casual per non dare nell’occhio e infine quello costoso da aperitivo in centro. E mi veniva naturale cambiare outfit e auto a seconda del contesto.
Mi veniva naturale cambiare outfit a seconda del contesto
Uguale in The Witcher 3. Da bravo fantasy con elementi GDR propone innumerevoli opzioni di costumi, ma una volta trovata la prima Witcher armor, mi è subito stato chiaro dov’era il cuore degli sviluppatori e stilisti di CDPR. Sono bellissime, tutte, e mi è sembrato subito logico dove indossare alcune di loro. Non esisteva per me andare alle Skellige indossando qualcosa di diverso dall’armatura dell’Orso, così come nella raffinata Touissant era per me ovvio portare la Manticora. Grifone e Lupo sono più universali, quindi ho adottato la prima per il verdastro Velen, per affinità di colore. Con quella del lupo, in quanto più “metallara”, la sfoggiavo in centro a Novigrad giusto per mettere in chiaro di essere fuori dal gregge.
Horizon fa qualcosa di simile? Sì. La storia delinea abbastanza presto almeno 4 clan principali con forti divisioni tra gli uni e gli altri, nonché abitanti di differenti aree climatiche. I Nora sono una società matriarcale vicina allo sciamanesimo, in una regione dal clima scozzese, che utilizzano spesso il blu sia negli abiti che in pitture facciali. Gli imperiali Carja si vantano del loro clima tropicale e sfoggiano tessuti eleganti e costosi, sempre abbinati a spoglie di macchine, ma con un occhio verso lo sfarzo. Gli Oseram sono l’opposto. Sono i “nani” del mondo di Horizon, ottimi ingegneri, con le armature più massicce dove l’utilità ha sempre priorità su bellezza e stile. “Nessun vero Oseram toglie le punte di freccia”, recita il loro motto. I Banuk sono i più strani: quelli ritenuti un po’ pazzi a priori, che usano i cavi delle macchine come innesti decorativi da applicare sopra e sottopelle. Ben intabarrati in abiti pesanti da profondo nord a Gennaio. Sono infatti gli abitanti delle Frozen Wilds, regione che dà il nome alla titolare espansione. Gli “spartani” della situazione dato che non hanno un’opinione molto mascolina degli altri clan che popolano l’universo di gioco. Quel tipo di personaggi per cui una morte gloriosa è il più importante momento della vita.
Un cocktail tra tribalismo, fantasy e sciacallaggio di pezzi delle macchine
Tutti loro adottano il particolare fashion design proposto da Horizon Zero Dawn, che è un tratto stilistico inseparabile da tutto il resto del gioco. Un cocktail tra tribalismo, fantasy e sciacallaggio di pezzi delle macchine, indossati come elmi, bracciali, ginocchiere, artigli, corazze o anche solo elementi decorativi. Il tutto sempre con deliziosi tratti asimmetrici, che ci ricordano che in teoria questo gioco è un post apocalittico. Già riuscire a farsi un’armatura non è scontato, pretendere di trovare due bracciali o spalliere identiche è un po’ troppo.
Per trovare altri giochi con un simile universo interno di costumi devo andare a disturbare The Witcher 3 con appunto, le fantastiche witcher armors. E Vampires the Masquerade: Bloodlines, con il suo streetwear che esalta la cultura del clan scelto. Un Malkavian avrà un senso dell’eleganza diverso da un Toreador. Ok, ora che lo rileggo, già dire “un malkavian avrà un senso“ è un’affermazione coraggiosa, ma parleremo di Vampires in un altro momento.
L’importanza sottile del costume design, dicevamo. La narrazione non è eccezionale né con la regia, né con i tempi narrativi e in generale per Guerrilla Games questi sono sempre stati punti di grande fragilità. Non mi dimenticherò mai il pasticcio narrativo che combinarono con Killzone, un disastro di retcon uno in fila all’altro che richiederebbe due speciali per parlarne (“ma allora te le chiami“ cit. colleghi). Uno spreco enorme per un franchise che tematicamente avrebbe una potenza incredibile, specie ai giorni nostri che sono un po’ più… complicati… rispetto a quando la serie era sulla cresta dell’onda.
Comunque, devo dare atto che non solo con Horizon sono migliorati nel delineare un universo narrativo chiaro, con tutte le proprie regole che vengono rispettate, ma che sono riusciti a farlo anche grazie al sempreverde show, don’t tell. È sufficiente aggirarsi in un villaggio del clan X o Y per capire la loro cultura, come si posizionano rispetto alla capitale, come si posizionano rispetto alle macchine.
Metto questo gioco nello stesso olimpo di The Witcher 3, Cyberpunk 2077, Kingdom Come e pochi altri eletti? No. Alla fine no, non è davvero riuscito a darmi altrettanto e anzi, se l’obiettivo è forse altrettanto ambizioso, ho trovato l’esecuzione finale abbastanza inferiore. Ho spezzato la mia run molte volte e al momento non ho particolare voglia di affrontare il sequel.
Però ho apprezzato il tentativo (riuscito, dai) di fare un kolossal dopo tanti anni altalenanti con Killzone. Così come ho apprezzato il senso (più che in altri giochi) di andare con la modalità più difficile. Nonché la cifra artistica immediatamente riconoscibile. Forse non una pietra miliare della sua nicchia, ma di sicuro una grande prova di maturità per lo studio di sviluppo olandese.