Shenmue è ancora qui - Parte 1 – Speciale

Dopo la delusione del terzo capitolo uno si aspetta… boh, non mi aspettavo più niente, sinceramente. Ho dato un po’ di tempo a Yu Suzuki per lanciare qualche piccola news sul quattro, cosicché lo scivolone potesse redimersi con un, speriamo, soddisfacente finale. Avevo ormai rinunciato, quand’ecco…

È possibile non aver mai giocato Shenmue, ma questa è una di quelle cover art che è difficile non aver mai almeno intravisto.

Poco tempo fa è stata annunciata l‘Enhanced Edition di Shenmue 3, priva di nuovi contenuti narrativi, ma ben lucidata su diversi aspetti tecnici e di quality of life. E va beh, in onore dei primi due giochi e della visione d’insieme, se è un modo per fare cassa e finanziare il prossimo, posso accettarlo. Potrei anche considerare di prenderla, il terzo è stato comunque un unicum in un certo bizzarro modo e potrei apprezzare un altro giro.

Ma perché sto parlando di Shenmue come se fosse una sorta di divinità di tempi perduti? Perché lo è, non ha eredi. No, non nominatemi Like a Dragon. Non lo è. Non fa le stesse cose e quando fa cose simili, lo fa con tutt’altro tono e intenzione. Penso che ci siano dei giochi adiacenti a Shenmue, ma non li cercherei nei combattimenti. Visto che c’è ancora una pallida speranza di veder concludere la saga, ho pensato di fare un bel treno dei ricordi. Che cos’è stata e che cos’è oggi. Per capirla, è importante mettere a fuoco il contesto storico in cui nasce.

L’ULTIMO VAGITO DEL DREAMCAST

Ai tempi dell’uscita del primo capitolo sull’ultima ammiraglia Sega non c’era niente di lontanamente simile, niente che facesse questa somma di cose con questa ambizione. Ironico che una delle pietre miliari più narrativamente pregnanti della storia del media videoludico sia nata sotto il tetto del produttore “punk”, quello vicino agli arcade smanettoni. Quello che sfidò il semi-monopolio console di Nintendo e il nuovo delfino di Sony. Perdendo contro entrambi. Il Dreamcast rappresentò, più che un passo successivo, l’ultimo disperato tentativo di rimanere nel settore console, o la va o la spacca. Bisognava dare tutto, ma più di ogni altra cosa, bisognava dare qualcosa che i rivali non avevano. È in questo contesto dell’industria che evolve Shenmue.
Evolve, perchè la nascita in realtà avviene ancora nel 1993 per l’allora Sega Saturn, sotto la guida di Yu Suzuki. Colui che al tempo era lo Shigeru Myamoto di Sega, una vera rockstar dell’industria. Questa reputazione gli diede accesso a ben 47 milioni di dollari di budget, rendendo Shenmue il gioco dalla produzione più costosa fino ad allora. Per capirsi, era pressoché contemporaneo di Metal Gear Solid, Final Fantasy VIII e i primi Tomb Raider e da un punto di vista tecnologico li umiliava in tutta tranquillità. Mentre i volti erano solitamente ancora dei fogli in bitmap con vaghi tratti del viso e la mani erano 2 blocchi con le dita disegnate, Shenmue già vantava espressioni facciali e 5 dita per mano ben distinte.

Tra specchi e misteri.

Ma se la tecnologia era qualcosa di mai visto prima, anche il gameplay era qualcosa di insolito. Ed è qui che ho sempre disconosciuto paragoni con altri “giochi open world di picchiare”.
Trovo che Shenmue sia stato invece un precursore di giochi come L.A. Noire, Pathologic o Death Stranding, finanche di Heavy Rain e buona parte della produzione di David Cage. Quel tipo di giochi che vogliono fare uno scalino in più nel rappresentare lo spaccato di vita del protagonista. Non solo i momenti adrenalinici, ma anche quelli più mondani, persino le normali routine giornaliere tra cui mangiare e andare a dormire alla sera. Quel tipo di immersive sim il cui protagonista non è un criminale e non intende diventarlo, a meno di motivi di forza maggiore.

Shenmue fu troppo pionieristico per venire capito al tempo, troppo vintage per venire apprezzato oggi.

Provate a pensare a quanti open world/immersive sim hanno un protagonista che non è un nomade rinnegato o un fuorilegge. Ci vuole un momento, vero? Ecco, inserite questo concept in un mondo in cui la coppia di parole “open world” ancora non esisteva. In assenza di definizioni chiare, intervenne Suzuki in persona a coniare il termine F.R.E.E. (Full Reactive Eyes Entertainment). Un seminale tentativo di rappresentare digitalmente un universo narrativo, che esiste a prescindere da noi. Shenmue si ambienta in alcuni distretti di Yokosuka brulicanti di vita, con più di 200 personaggi dalla differente routine giornaliera e clima atmosferico basato su dati reali del periodo in cui si ambienta il gioco (1986-87). Era possibile “perdere tempo” con attività triviali come giocare a freccette, collezionare giocattoli, andare in sala giochi e consumare gettoni in giochi Sega da giocare dentro al gioco. Quando ancora mancava il concetto di skill tree e checklist, queste attività servivano “solo” a dare respiro, a far vivere uno spaccato di vita del protagonista.

UNA STORIA DI ARTI MARZIALI

La storia parte con il protagonista Ryo Hazuki, un giovanotto con il privilegio di avere un dojo di famiglia gestito dal padre Iwao e di essere quindi stato infarinato con le arti marziali sin dalla giovane età. Una piovosa sera, un misterioso maestro di Kung Fu di origini cinesi approccia il dojo e sfida a duello Iwao. Abiti tradizionali eleganti, portamento nobile e una disciplina impareggiabile. Iwao viene non solo umiliato in combattimento senza fatica, ma ucciso in quello che è evidente essere stato un conflitto personale. Ryo arriva giusto in tempo per venire malmenato come un novellino e sentire le ultime parole del padre, che gli indica l’esistenza di due misteriosi manufatti. L’aggressore che ha combattuto con una mano dietro la schiena si è impossessato del primo, ma a quanto pare servono entrambi per… per cosa? PADRE!

…e da qui dobbiamo scoprire tutto per conto nostro. Il bello è che il gioco non ci avrebbe detto niente sulle prossime mosse da fare. Quando iniziamo a giocare sappiamo solo quello che sa Ryo:
– tizio in abiti cinesi classici con tecniche marziali fuori scala.
– se n’è andato con un’auto nera.
– 2 antichi manufatti provenienti da chissà dove tenuti nascosti.

…e nessuna altra informazione pioverà dal cielo. Ma la vendetta, o anche solo sapere “perché?” sono questioni che consumano l’anima e pur sperando che la polizia faccia il suo lavoro, Ryo attiva la sua indagine personale.

Sogni d’oro. Oh, ci abbiamo provato a farli desistere a parole.

I climax di Shenmue si giocano come un picchiaduro (ci arriviamo), ma la ciccia del gioco si vive come una detective story dove ogni dettaglio conta. Quando esploreremo una stanza importante per l’indagine la musica si calma, l’atmosfera si fa concentrata. E dobbiamo cercare l’ago nel pagliaio aprendo ogni cassetto, rigirandoci tra le mani ogni oggetto, guardando attentamente ogni fotografia finché non troviamo l’indizio chiave che farà accendere la proverbiale lampadina.
Può condividere il sistema di combattimento con Virtua Fighter, può aver creato i quick time event sdoganando il concetto che si può “far fare qualcosa” al giocatore anche nelle cutscenes, specie quelle d’azione. Ma il cuore dell’azione rimane investigativo, passando al pettine stanze che raccontano storie e importunando passanti finché non incontriamo quello che finalmente non si fa gli affari propri.

In Shenmue si combatte, ma il cuore del gioco rimane investigativo

L’indagine finirà per pestare i piedi a gente losca ed è qui che quando le parole falliscono è il momento di ricorrere a pugni rapidi, calci volanti e kamae (posture di guardia) belle solide. Qui andiamo a toccare un altro punto fondamentale di Shenmue come saga. Ci sono molti giochi CON arti marziali, ma questo parla proprio DI arti marziali. Il trascorso marziale di Ryo è un tratto inscindibile dal personaggio, lo definisce nel portamento, nel linguaggio, nel suo stoicismo. Ryo è tanto composto con gli alleati (pur volendogli bene sinceramente), quanto imperturbabile quando riceve minacce da nemici.
Un guerriero cresciuto in un giardino in tempo di pace, che purtroppo ora si trova in un clima di guerra. Senza una vera esperienza in situazioni violente reali, ma in grado di guardare negli occhi un eventuale aggressore e restare fermo come il ghiaccio aspettando che arrivi il colpo. A quel punto, si sentirà legittimato a reagire, e noi con lui. O attraverso quick time events dove vedremo Ryo sbaragliare inetti scagnozzi uno dopo l’altro, o con duelli più seri dove si deve impegnare, ed è qui che entriamo in zona picchiaduro. Con pugni, calci ad ogni altezza e parate con animazioni contestuali all’attacco deviato, come si conviene a un Virtua Fighter che si rispetti.

Non c’è (ancora?) un vero elemento soprannaturale in Shenmue, ma alcuni tipi sono belli strani.

Ma non aspettatevi di andare in giro a menare il prossimo come un precursore di Sifu. No, parlando di pura proporzione, i momenti in cui si combatte in Shenmue sono circa il 10% del tempo di gioco totale, se non meno. E in questo sto contando anche l’apprendimento di nuovi attacchi, che vengono presentati come un momento importante. Di solito avvengono dopo aver conosciuto altri personaggi e aver fatto uno sparring amichevole con loro.

ED È ANCORA LUNEDÌ

Il resto è tutta investigazione e… lavoro. Eh, sì. Dal momento che non c’è la classica dinamica di picchiare i cattivi e derubarli per poi investire in equipaggiamento e attacchi migliori, Shenmue esprime il suo sistema economico proprio come nella vita vera: a meno che non si disponga di un qualche tipo di rendita passiva, l’olio di gomito va versato da qualche parte.
Ed è così che un ragazzo fine di media borghesia finisce a fare lo scaricatore di porto part-time, con muletto e a volte anche senza. Il denaro poi non servirà per collezionare mosse e abiti, questa possibilità verrà introdotta con il terzo capitolo. Nei primi due manca il tipico sistema economico, ma manca pure il negozio cucito su misura per il protagonista.

Non si vive di solo lavoro. Il garino con i muletti è il classico “momento Sega” in una vicenda altrimenti molto densa.

No, i soldi servono per giocare ad altri giochi Sega all’Arcade, a collezionare action figures e a superare quelli che nel game design chiamo “money check”, invero a volte un po’ esagerati. Infatti una delle modifiche per la Enhanced Edition del terzo è proprio rivolta ad ammorbidire questi eventi. Nel corso della saga può capitare di dover comprare accessi a particolari aree a carissimo prezzo, oppure che un’informazione essenziale sia nascosta in un particolare oggetto d’antichità che di conseguenza non costa bruscolini. A quel punto, nessun negoziato, nessuna scorciatoia e il codice morale di Ryo gli impedisce di rubare o anche solo prendere in prestito. Bisogna pagare. È anche qui che trovo dei legami di credibilità ludonarrativa con gli open world che ho menzionato prima.

Il denaro non serve per comprare armi, costumi o tecniche

Comunque, Ryo se la passa un pò meglio di Cole Phelps, Artemy Burakh e Sam Bridges. Il nostro protagonista ha un tetto, pure piuttosto carino. Ha già cibo, ha già vestiti (il suo abbigliamento è diventato iconico nella sua semplicità casual e il giubbino marrone), non ha intenzione di usare né di comprare armi e soprattutto, eventuali negozi in tal senso non si trovano dietro l’angolo. Ma ancora più importante, è l’erede di un dojo dalla storia decennale. Sarebbe disdicevole ricorrere a manipolazione e violenza gratuita.
D’altro canto, finché l’azione si svolge a Yokosuka, Ryo è pure a casa sua. La notizia dell’omicidio del sensei di un rinomato dojo ha fatto rapidamente il giro del distretto, la gente chiacchera, il giovanotto è rispettato a prescindere e ha una reputazione da mantenere.

LASCIANDO CASA, AVVENTURANDOSI NEL MONDO

Per certi versi, la storia del secondo capitolo e quella della sua produzione vanno a braccetto. L’azione si sposta in una zona non familiare, in Cina. Ryo arriva a Hong Kong via nave, zaino in spalla, senza conoscere nessuno e niente, se non una pallida pista. Qui il tono è ancora più detective story visto che siamo nel contesto in cui non sappiamo di chi fidarci. Nessun rispetto gratuito, siamo solo un altro ennesimo volto tra la folla, che si aggira con il sottofondo di una soundtrack che si fa sempre più misteriosa. Tra l’altro, mancando stavolta di un appoggio per dormire, lavorare servirà per prima cosa a mantenere la stanza d’albergo e le piccole (e meno piccole) spese dell’indagine. L’azione avverrà perlopiù nell’area portuale di Hong Kong per poi spostarsi in una versione reinterpretata di Kowloon, luogo che ha ispirato moltissimi film a tema detective/marziale. Impossibile a questo riguardo non nominare Bloodsport con Van Damme. Sicuramente più colorata di quella che fu la versione reale, più aerata in perfetto stile Sega, ma comunque un luogo in cui è facile perdersi ed è sempre opportuno guardarsi le spalle. In questo, proprio come il primo capitolo, Shenmue mostra anche un certo impegno verso la ricostruzione storica di taluni luoghi. Intendiamoci, non vuole essere un documentario ed è quel tipo di ricerca storica che prende in prestito solo quello che gli serve per costruire l’atmosfera. Tuttavia, trattandosi di un luogo che non esiste più, l’unico modo per vederlo e, in un certo qual modo, visitarlo, è attraverso le opere che ne sono state ispirate.

Quell’albero sarà protagonista di uno dei momenti marziali più belli del media.

Shenmue 2 è grande 3 volte l’originale e c’è molta più adrenalina, situazioni di fuga e inseguimento, combattimenti indesiderati, maestri da cui apprendere (sia Sifu di arti marziali che altri individui più ambigui che comuque ne sanno). Senza però perdere la proporzione menzionata prima e senza rinunciare a “chi è” Ryo come persona. Basti dire che quando si cambia zona bisogna prima andare a salutare tutti gli alleati che ci hanno dato una mano.
Dopo un meritato climax a Kowloon, la vicenda si sposta nell’entroterra cinese, dando l’apertura al terzo capitolo. Ed è questa gargantuesca successione che fa sembrare il primo capitolo un prologo (di fatto lo è), che dimostra che c’è una visione gigante dietro a questo progetto. Qualcosa di importante, che va portato a termine.

C’è una visione gigante dietro a questo progetto.

Shenmue 2 ha salvato il Dreamcast? No. Addirittura negli states uscì in esclusiva per Xbox. Nei due anni che intercorsero tra il primo e il secondo capitolo, Dreamcast si confermò il fallimento commerciale già anticipato dagli scarsissimi numeri rispetto al lancio di Playstation. Sega dovette quindi cambiare strategia e uscire dalla scena hardware per sempre, rintanandosi nel suo nuovo ruolo di sviluppatore per le console rivali. Il cambiamento non fu indolore e proprio Shenmue ne fu una vittima incidentale. La magnum opus di Yu Suzuki, il potente sequel del pionieristico primo capitolo diviso tra una console morente e un’altra appena arrivata che aveva ancora tutto da dimostrare. La ricezione di chi lo ha giocato fu stellare. Le vendite, catastrofiche. Sulla saga inizia un lungo, plumbeo silenzio.

Ultimo momento di adrenalina prima del silenzio.

Interrotto nel 2004 da un segnale di vita che nessuno aveva chiesto e che (a mio parere fortunatamente) non vide mai la luce: Shenmue Online. Dopo un secondo trailer nel 2006, ancora una volta, tutto quanto riguardasse Shenmue, compreso il suo autore, svanisce in silenzio. Lasciando i fan e la storia con il vuoto più totale. Goliardicamente mi viene da dire che Sega stava di nuovo anticipando i tempi, sperimentando per prima la forzatura del multiplayer online in una saga che tutto cerca meno che quello e realizzando che sarebbe stato un tale flop da cancellarlo silenziosamente. Quasi 20 anni di anticipo, cari lettori. Io mi inchino.

Siamo nel 2015 e arriva l’annuncio all’E3. Shenmue 3 nasce come progetto Kickstarter, con Yu Suzuki ancora stabile al timone e Inin Games nel ruolo di produttore. Grande festa o un ritorno fuori tempo massimo più doloroso che altro? Sì. Ne parleremo nel dettaglio la settimana prossima.

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