Qualche sera fa, nonostante abbia perennemente aperte pratiche più stringenti (come Monster Hunter World), ho deciso di dare una mezza occhiata al backlog per guardare cosa mi fosse rimasto indietro. Avevo una gran voglia di qualcosa che mi facesse sentire addosso l’odore del mio stesso sangue, quel “friccicore” che non provavo da quando avevo terminato Outlast (il primo) e Alien Isolation, ormai troppo tempo fa. Nonostante la presenza in libreria di robe come SOMA (titolo che è argomento costante di conversazione nelle chat redazionali), la scelta è caduta su Dying Light, che ho sempre osservato dalla distanza con interesse, ma che – per un motivo o per l’altro – non avevo mai avuto modo di far mio.
Inserito il disco della Definitive Edition nella mia Xbox One (non fate quella faccia, eh… quello passava il convento, e comunque gira a meraviglia) ho trascorso le prime quattro o cinque ore a gironzolare per una città luminosa, pullulante di zombie certo putrescenti, ma comunque lenti quanto Montolivo con una palla da carcerato al piede. Poi è calata la notte e mi sono ritrovato nel buio più totale, con esseri incazzatissimi e velocissimi che hanno iniziato a corrermi dietro per trasformarmi – diamine! – nella pietanza principale del loro barbecue. Sono tornato al rifugio con il cuore in gola: da lì in avanti, tutte le volte che mi è toccato uscire ho cercato di farlo di giorno, spingendomi nelle tenebre solo quando è stato strettamente necessario. L’urgenza di pericolo del mio personaggio – insomma – è diventata anche la mia, e questo è probabilmente il complimento migliore che possa fare al gioco di Techland, almeno stando all’esperienza che ho accumulato nelle prime ore.
perché ci piace così tanto il brulichio della paura nel polpastrelli?
Tornando a bomba, perché ci piace così tanto il brulichio della paura nel polpastrelli? Nasce dalla consapevolezza di una posizione di sicurezza (con la sospensione dell’incredulità che ci sussurra «ehi… sei comunque seduto sul tuo divano»), o si tratta di un’emozione comunque insita nell’animo umano? Se ci capitasse qualcosa di “veramente” spaventoso nella vita vera (tipo incontrare di notte un rapinatore che ci insegue, pistola in mano), reagiremmo in modo diverso, o comunque – una volta raggiunta la salvezza – la scarica di adrenalina ci lascerebbe nelle membra anche un sottile strato di piacere? Onestamente non ho una risposta da darvi, e spero vivamente di non trovarmi mai di fronte a situazioni così estreme e che mi consentano di sperimentarne gli effetti. Tuttavia, è innegabile come – quando mi prendo una pausa da un videogioco perché non ne reggo la tensione – dopo breve tempo mi si riaccende in fretta il desiderio di ricominciare. Nel valzer di emozioni c’è, insomma, tutto il bello di danzare sul filo della paura, con un piede di qua e uno di là, nel limbo tra raziocinio e trasporto; proprio come fa il bambino dell’immagine che apre questo articolo, che si mette le mani sugli occhi, ma lascia aperto uno spiraglio per sbirciare. Sperando che prima o poi non mi capiti di cadere fragorosamente e di lasciarci le penne per sopraggiunto infarto, s’intende.