Di metroidvania e di mappe – L'Opinione

Ho scoperto il metroidvania come genere molto tardi, in pratica con Hollow Knight, quando avevo già più di vent’anni. Un peccato, mi rendo conto, ma da allora ne ho recuperati un discreto numero. In pratica si tratta di un genere appunto da Metroid e Castlevania, alla cui base c’era l’idea di sovvertire la linearità della progressione nelle due dimensioni, da sinistra verso destra, come nella maggior parte dei giochi a scorrimento dell’epoca. A un certo punto Nintendo e Konami hanno deciso che l’esplorazione doveva andare in tutte le direzioni, che il mondo di gioco poteva essere più strutturato, meno lineare, con delle interconnessioni, degli ostacoli a impedire la progressione, ma che diventeranno superabili in seguito, grazie a dei power up o a degli oggetti da trovare in altre aree della mappa.

Ecco, volendo trovare un concetto chiave alla base del metroidvania forse proprio l’idea di “mappa” è quello che più si addice. L’idea cioè di concepire il setting come esplorabile, non solo attraversabile, e di conseguenza realizzare una rappresentazione della struttura del mondo, anche solo schematica, anche solo in fase di concept del gioco. Poi va da sé che nella maggior parte dei metroidvania è presente la mappa come schematizzazione del mondo consultabile dal giocatore, anche perché molto spesso non se ne può proprio fare a meno. Nel tempo le mappe di questi mondi bidimensionali si sono sempre più affinate e sviluppate, e dalle schematizzazioni fatte di rettangolini del tutto anonimi di trent’anni fa siamo arrivati a rappresentazioni precise, chiare, consultabili in modo semplice e in alcuni casi perfino annotabili. Ma ci arriviamo. Chiaramente finché si resta nell’ambito delle due dimensioni rimane relativamente facile realizzare delle mappe più o meno comprensibili. A meno che non ti chiami Igarashi e vuoi far scalare al giocatore una torre tridimensionale in un mondo 2D. Mannaggia a te, Bloodstained.

RAPPRESENTARE LE TRE DIMENSIONI

I problemi nascono quando il mondo da “rendere consultabile” ai giocatori diventa tridimensionale, cosa che irrimediabilmente complica la sua schematizzazione. In fondo anche nel mondo reale ci siamo dovuti arrabattare per rappresentare la tridimensionalità. Abbiamo inventato i mappamondi, abbiamo fatto le mappe distorte in cui i paesi del nord sembrano più grandi di quel che sono, abbiamo sviluppato Autocad per digitalizzare le piante degli edifici. Eppure rappresentare la tridimensionalità dando contezza dello spazio è sempre problematico, anche in contesti altri dal videogioco.

Un anno fa ho giocato alla remastered di Metroid Prime (che in realtà era un remake, ma non ditelo a Nintendo) ed è stato il mio primo approccio alla declinazione 3D di Metroid in assoluto. In generale è stato uno dei primi “metroidvania 3D” a cui ho giocato. Una bella esperienza, un’avventura invecchiata piuttosto bene e molto godibile anche oggi in questa riedizione, al netto di alcune cose che sentono il peso degli anni. Una di queste è proprio la mappa. Non che di per sé non sia comprensibile, il mondo di gioco è stato schematizzato in una sorta di modellino 3D olografico che fa capire in modo abbastanza chiaro le interconnessioni tra le varie aree e le stanze da cui ogni zona è composta. Ho trovato frustrante soprattutto il fatto che le porte chiuse in giro per la mappa non fossero ben segnalate. Mi spiego meglio: in gioco ci sono quattro tipologie di porte apribili da quattro diversi poteri – per lo più nuovi tipi di missili – che si sbloccano durante l’avventura; ognuna di queste tipologie è contrassegnata da un colore, che è lo stesso del power-up; basta segnare sulla mappa una porticina col colore giusto, no? Facile.

Sì, e infatti il gioco lo fa. Peccato lo faccia solo nelle aree recentemente esplorate. Non ho ben capito quale sia la logica dietro questa cosa, se sia dipeso magari dai limiti di GameCube nel 2001 o se sia stata una precisa scelta di gameplay, ma di fatto ha complicato molto più del necessario il backtracking e la mia esperienza di gioco in generale. Ricordo di averne parlato con degli amici che avevano giocato al gioco originale, che hanno minimizzato la cosa come un difetto di poco conto. In particolare qualcuno mi disse scherzando che al confronto con la mappa di Control era oro puro. E aveva ragione.

COME NON FARE UNA MAPPA 3D NEI METROIDVANIA

Sto recuperando in questi giorni l’action di Remedy del 2019 e non ci sono davvero parole per esprimere quanto male sia stata realizzata la mappa in questo gioco, che pure è fondamentalmente un metroidvania 3D con un bel po’ di backtracking. O meglio le parole ci sarebbero pure, ma bestemmiare negli articoli non è permesso. Il fatto che un gioco moderno con un mondo intricato come quello di Control, con la volontà che le persone esplorino con curiosità, e con una mappa così approssimativa, in due dimensioni, che non riesce a esprimere in alcun modo nessun tipo di verticalità delle aree, in cui spesso l’indicatore del giocatore esce dai bordi, è semplicemente senza senso. Un gioco comunque interessante, con un level design con diversi spunti, che però non fa altro che diventare frustrante quando passi diverso tempo a cercare di leggere una cartina illeggibile e di raggiungere un’area che sembra introvabile e invece bastava girare al punto giusto che sulla mappa non esiste.

Rappresentare i mondi tridimensionali quando sono così intricati e interconnessi è sicuramente una sfida non banale, ma è proprio difficile immaginare cosa abbia portato il team finlandese a fare determinate scelte. Tutto sommato Metroid Prime quasi vent’anni prima faceva un lavoro molto più chiaro e comprensibile. Ma anche parlando di esempi più recenti: basta fare il confronto con la mappa di Star Wars: Jedi Fallen Order per rendersi conto della differenza di leggibilità. Sicuramente sono state fatte anche delle scelte stilistiche, ma l’esperienza utente dovrebbe stare sempre al primo posto, no?

HOLLOW KNIGHT ANNO ZERO

In generale realizzare una mappa per questo tipo di giochi non è sicuramente semplice. Eppure va detto che dopo Hollow Knight (2017) basterebbe solo copiare da lì. Basterebbe fare dei “figli del modello Hollow Knight”. Ovviamente parliamo di un gioco bidimensionale, ma alcune idee sono tranquillamente replicabili in tre dimensioni. Il gioco di Team Cherry rendeva la mappa di gioco diegetica grazie all’inserimento del cartografo, Cornifer, che di volta in volta vendeva al giocatore la cartina delle aree che si vanno esplorando. Realizzate con cura, con la posizione del Cavaliere Vacuo sempre chiaramente visibile grazie all’amuleto “bussola”, non solo in termini di stanza in cui si trova, ma anche in quale esatto punto della stanza, ed è già un aspetto non banale per agevolare l’orientamento.

Queste cartine inoltre sono “incomplete”, indicano chiaramente delle vie d’accesso a stanze non rappresentate, che andranno esplorate e poi appuntate (automaticamente) dal protagonista al checkpoint successivo. Fatto che tra l’altro crea la sensazione di essere in qualche modo noi giocatori stessi i cartografi del mondo.

Penso che Hollow Knight non abbia solo fatto da apripista nel revival dei metroidvania, ma ne abbia anche ridefinito la quality of life

Inoltre la mappa differenzia in modo inequivocabile le stanze già visitate da quelle ancora non raggiunte, anche qui facilitando l’esplorazione e rendendo più rara la sensazione di essersi persi nel mondo di gioco. Infine, Hollow Knight mette a disposizione una serie di puntine e segnalini con cui possiamo annotare un punto preciso in una stanza della mappa, qualunque punto, liberamente. Il che significa che con un po’ di lungimiranza potremmo segnare tutti gli ostacoli che non è possibile superare al primo passaggio, tutti i nemici che non si riesce a battere al primo scontro, tutte le aree troppo ostiche per affrontarle la prima volta che le incontriamo. E tornarci in seguito.

Hollow Knight Neoclassici

Ancora oggi, a distanza di otto anni dalla sua uscita, penso che Hollow Knight non abbia solo fatto da apripista al ritorno in voga del genere metroidvania, dei cui esemplari oggi siamo sommersi, ma abbia anche definito alcuni aspetti di quality of life per agevolare l’esplorazione che ormai sono imprescindibili. In fondo l’opera prima di Team Cherry continua a essere al tempo stesso un perfetto punto d’ingresso, ma anche uno che setta degli standard molto alti se poi si va a guardare ad esponenti vecchi e nuovi, 2D o 3D, dello stesso genere.

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