Rocky sale sul ring, senza essersi minimamente allenato. Nessuna corsa sprofondando fino alle ginocchia nella neve fresca, zero tronchi tagliati con una sega arrugginita, di gattonare trainando Paulie appollaiato su una slitta non se ne parla proprio. In Siberia fa un freddo cane; chi glie lo fa fare di uscire all’alba, quando può restare al calduccio a degustare tutte le trentadue varianti di vodka aromatizzata disponibili al minimarket locale?
L’Unione Sovietica è lì, ad aspettare uno scontro epico. Entra Ivan Drago, macchina perfetta che sovrasta lo Stallone Italiano di quaranta centimetri buoni, sei o sette categorie di peso, un centinaio di chili di massimale in panca e varie dosi di anabolizzanti in circolo. L’inquadratura stringe sui suoi occhi algidi. Ti spiezzo in due. Campanella del primo round. Rocky, appesantito e già con il fiatone per aver saltellato troppo mentre lo speaker presentava gli atleti, lancia un jab poco convinto, non è chiaro se per colpire il pugile russo o scacciare una zanzara.
Il guantone tocca Drago con la forza di una carezza materna, eppure il gigante biondo barcolla. Le ginocchia gli cedono. Le luci nella sua testa si spengono. Il pubblico ammutolisce. L’arbitro conta fino a dieci con espressione annoiata. Apollo da lassù osserva incredulo, dal labiale possiamo leggere WTF. Gorbaciov applaude. Rocky arringa la folla, ora dalla sua parte. Titoli di coda, tutti a casa.
LO RICORDAVO DIVERSO, COME CERTI VIDEOGAME
E il montaggio epico? La sfida impossibile? Gli estenuanti allenamenti con mezzi di fortuna? La colonna sonora che tutt’oggi anima le palestre di mezzo mondo? I round scanditi da colpi devastanti da entrambe le parti? L’intero cinema che si alza in piedi per contare Drago? Quello è un altro film, ragazzi. Oggi abbiamo guardato Rocky IV in Story Mode. Il finale è il medesimo, ma il viaggio è stato un po’ meno emozionante, perché Stallone all’epoca era già sulla quarantina e non aveva voglia di faticare. Nessuno pagherebbe il biglietto per una pellicola del genere, tuttavia alcuni giocatori si aspettano proprio questo dai videogame: arrivare alla fine eliminando ogni difficoltà.
Saltando i combattimenti, automatizzando le decisioni, ignorando le sfide. E magari, alla fine, lamentandosi pure: “Non mi ha preso”. Ma che storia può emozionare, se si scende nei dungeon in pantofole o si salvano galassie con un paio di click? Che senso ha inseguire per dieci ore il Signore Supremo delle Tenebre, se poi lo si abbatte con un sol colpo? Nel frattempo, dall’altra parte dello schermo, gli sviluppatori – occhi stanchi, dita callose, mesi di crunch sul groppone e un template di licenziamento nella mail – mormorano mestamente: “Vi avevamo preparato dei combattimenti epici. Li avete skippati.”
NOOO, ANCORA IL ‘GHEIT CHIPPING’
Conosco bene dove portano questo tipo di discorsi, e spoilero che il gatekeeping non è la strada che intendo percorrere. È innegabile però che esista uno spesso muro invisibile tra chi gioca per superare sé stesso e chi per ottimizzare il tempo tiranno che ha a disposizione. E quando questi due mondi si scontrano – come in Burning Heart: “Two words collide, rival nations” – raramente dialogano: molto più spesso si giudicano.
“Siete scarsi” Vs “Abbiamo una vita vera”, due facce della stessa medaglia

Bravo, ma (voce da Thomas Milian/Ferruccio Amendola) so’ e tre e mezza, io devo dormì perché devo lavorà, devo lavoràaaaaaaa!!!
Ma se Sparta piange, Atene non ride, e il fronte opposto non è meno pedante. Sono i giocatori che si interessano – a loro dire – solo alla storia, impugnando il gamepad con una mano sola perché con l’altra sfogliano l’agenda. “Non ho tempo da perdere”, dicono, tra una cutscene saltata e un fast forward nei dialoghi.
è sempre solo una questione di tempo? hmm…
ASCOLTATE GLI APPASSIONATI, NON IL MERCATO
Vale la pena ricordare che livelli di difficoltà non sono stati introdotti per bontà d’animo degli sviluppatori, bensì per garantire la sopravvivenza dell’industria. Ogni volta che un gioco offre un’opzione “Storia”, “Facile” o “Dà qua, faccio io”, non intende umiliare i Giocatory Bravy favorendo le Perzone Impenniate, ma spianare il cammino a chi non ama le sfide, ampliando il pubblico e provando a vendere più copie. E vendere più copie significa incassare di più, finanziare sequel, pagare gli stipendi agli addetti ai lavori – in un mondo perfetto nel quale i licenziamenti random non esistono – e permettere a una software house di continuare a esistere. Il compromesso non è solo etico o filosofico: è economico.

Una volta i giochi dovevano essere difficili per ingurgitare monetine, ora devono essere facili per prosciugare carte di credito.
Un po’ come nelle palestre di pugilato, tornando a Rocky. Quelle che restano in piedi non lo devono ai tre agonisti che vivono sul ring e sputano sangue sei giorni a settimana, ma ai cento iscritti che vanno due volte al mese, fanno un po’ di corda, due combinazioni al sacco e un selfie con i guantoni da pubblicare con caption “Train Hard, Fight Easy” per poi tornare a casa felici. Senza di loro, la baracca chiuderebbe. E i tre aspiranti campioni rimarrebbero senza un luogo nel quale allenarsi. Così nei videogame: se vogliamo che esistano ancora esperienze complesse, profonde e di qualità, è giusto che esistano scorciatoie per chi ha meno tempo, meno voglia, o semplicemente un altro modo di giocare.
Vorrei che sceglieste “Normal”, almeno una volta
PROVATECI, GLI SVILUPPATORI SI SONO TANTO IMPEGNATI
Tra il martirio auto imposto e la crociera assistita, esiste una via di mezzo che merita attenzione: quella attorno alla quale il gioco è stato bilanciato, pensato, calibrato, testato. Una modalità in cui la storia non viene solo raccontata, ma anche vissuta. Dove il boss finale non è un cumulo di poligoni da archiviare con una spada di legno, ma il nemico che il protagonista teme fin dalle prime fasi del tutorial. Merita il dovuto rispetto e una morte che gli renda giustizia, non un instakill. E sì, all’inizio potrebbe sembrare più forte di voi.
Ma un giorno, sopravviverà solo con mezza barra degli HP. Poi con un quarto. E infine cadrà. O magari no; ma in fondo, non è forse più sensato abbandonare un gioco a tre livelli dal finale, dopo averci provato davvero, che attivare ogni god mode esistente solo per vedere i titoli di coda? Il vostro tempo è prezioso, certo. Ma lo è anche quello degli sviluppatori che hanno costruito quell’arena, programmato ogni nemico, esaminato ogni pattern di attacco. Se almeno una volta vi incontraste a metà strada, potreste scoprire che quella sfida non era lì per ostacolarvi, ma per completarvi.