Sfumature di JRPG – Speciale

Oggi è Clair Obscur: Expedition 33, qualche mese fa Metaphor: ReFantazio, ma anche Sea of Stars, Persona 5, Final Fantasy VII Rebirth, Unicorn Overlord, Xenoblade Chronicles 3. Negli ultimi anni di JRPG di qualità ne stanno uscendo parecchi e, soprattutto, mai uguali tra loro, sempre capaci di trovare idee vincenti, fresche, ibridando sistemi o andando a riscoprire meccaniche del passato.

JRPG

Quale miglior genere quando si ha voglia di una vacanza?

C’è un’evidente fame di JRPG, di avventura, di racconti corali, personaggi a cui affezionarsi e luoghi fantastici, suggestivi ed evocativi da esplorare. Ma cosa rende tale un JRPG (anche quando sviluppato fuori dal Giappone, come sempre più spesso accade)? Da decenni, il pubblico trova magico e coinvolgente perdersi in esperienze che, spesso, rifuggono da canoni specifici, cambiando i propri connotati e trasformandosi molto più spesso di quanto si è abituati in altri generi, creando di conseguenza una certa polarizzazione all’interno della sua fan base. Combattimento a turni o in tempo reale, esplorazione lineare o open world? Ognuno ha le sue preferenze ma il comun denominatore del genere resta l’impagabile sensazione di essere trasportati in un altro mondo, ad osservare e vivere altre culture, costumi, panorami, reinterpretando ere passate, fantasie future o, perché no, il nostro presente.

La condanna di chiamarsi Final Fantasy

Impossibile parlare di JRPG senza iniziare dalla saga regina, quella che per 20 anni è stata identificata col suo genere di appartenenza. Oggi, cos’è Final Fantasy? Tante cose, forse troppe ma, probabilmente, non è più “IL” JRPG per eccellenza. La saga Square-Enix da anni sembra sempre rincorrere sé stessa, senza trovare pace e stabilità, sperimentando ad ogni iterazione; ormai, da Final Fantasy X ad oggi, non esistono praticamente due capitoli che si basino sullo stesso scheletro di game design. È il contrario di una serie che si adagia sugli allori, in questo senso, riscuotendo però risultati altalenanti. Ogni capitolo una struttura diversa, un combat system diverso, racconti e personaggi che variano dal molto riuscito e avvincente al molto confuso e anonimo ma, in generale, atmosfere e ambientazioni che, ancora oggi, hanno dei picchi inarrivabili per la concorrenza.

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Final Fantasy X provò a rinnovare e snellire la struttura della serie, eliminando la world map e rendendo il tutto più “cinematografico”.

La direzione artistica della serie è qualcosa di speciale, quelle musiche, quell’interpretazione di “fantasy” che va dalla rivisitazione del contemporaneo (VII Remake/Rebirth, XV) al medioevo (XVI), arrivando poi a visioni decisamente più estreme e uniche (X, XII, XIII). Quando si avvia un Final Fantasy c’è sempre nell’aria una vibrazione speciale, anche nei capitoli meno riusciti; io, ad esempio, sono innamoratissimo del quindicesimo capitolo che, pur essendo oggettivamente pieno di problemi, sia lato gameplay – col combat system che è un abbozzo di quello che poi sarà la base dei ben più completi e spettacolari VII Remake e Rebirth – che narrativo, ha dei momenti e un’ambientazione per me indimenticabili.

In Square ci sono dei creatori di mondi eccezionali ma si ha l’impressione che manchi qualcuno capace di avere una visione d’insieme

In Square ci sono dei creatori di mondi eccezionali ma si ha l’impressione che manchi qualcuno capace di avere una visione d’insieme, qualcuno capace di tenere le redini, insomma, manca il Sakaguchi di turno. Un altro dei problemi della saga Square-Enix, questa volta esterno, è che oggi si trova tra due fuochi di pubblico: i reazionari d’annata, quelli per cui i “veri Final Fantasy” finiscono col IX e i più giovani, per cui questo nome non significa quanto per gli ultratrentenni, portando a una certa tiepidezza “generazionale” nei suoi confronti.

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Il sedicesimo capitolo è stato tanto drastico nei cambiamenti quanto divisivo nei risultati.

In questo senso Final Fantasy XVI è stato un tentativo particolarmente estremo di rinnovare la struttura della serie, diventando quasi un action puro, non riuscendo però a raggiungere i risultati sperati e a spiccare proprio come (nuovo) rappresentante di questo genere, con una concorrenza nutrita e di altissimo livello, sia lato JRPG che action. Visti i risultati ondivaghi e il parallelo successo di titoli a turni puri come Persona 5 e Clair Obscur (ma pure Sea of Stars e la remaster dei primi due Suikoden), viene da chiedersi se il prossimo capitolo principale (escludendo quindi il tanto vociferato e non ancora confermato remake del nono episodio) possa essere un ritorno a meccaniche consolidate, come il combattimento a turni che, tutto sommato, potrebbero portare nuova linfa, rappresentando una “novità” rispetto alla storia recente del brand.

JRPG: Vivere la vita a turni (ma non solo)

Impossibile negarlo, il ritorno del combattimento a turni è un fattore chiave in questa nuova wave di JRPG. Una caratteristica di gameplay che si era rarefatta dopo l’era PS2, con le major giapponesi che ad una ad una abbandonarono le loro saghe dopo che la popolarità (e probabilmente anche la qualità) degli ultimi capitoli era in netto calo (e penso a Capcom con Breath of Fire, Konami con Suikoden ma anche la scomparsa di altre grandissime serie come Grandia e Shadow Hearts), lasciando il grosso del mercato in mano a Square, ovviamente, ad Atlus e a The Pokémon Company che, nella pratica, fa un altro sport ma abita a tutti gli effetti nei confini del genere. Nella concezione giapponese del gioco di ruolo il combattimento a turni è un modo per dare al tutto una dimensione più tattica, riflessiva, separando le due fasi per esaltarle e quasi gestirle come due giochi separati, dando la possibilità di inventarsi soluzioni estremamente creative, più difficili da gestire in un gioco in tempo reale.

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Grandia, secondo me, ha il miglior combat system a turni di sempre, dinamico e divertentissimo!

Dai turni statici dei Dragon Quest all’ATB della trilogia PS1 di Final Fantasy, che aggiungeva pepe e imponeva una certa velocità di pensiero, fino alle interazioni dinamiche per attacchi, difese e mosse speciali del mai troppo lodato Mario & Luigi (e seguiti), o ancora le soluzioni quasi da “picchiaduro a turni” di Valkyrie Profile, fino a contaminarli con meccaniche di schivata e parry “alla Sekiro” con Clair Obscur. Negli anni gli sviluppatori hanno proposto tantissime interpretazioni alla formula base, rendendo il genere estremamente vivo e imprevedibile in termini di gameplay.

Nella concezione giapponese del gioco di ruolo il combattimento a turni è un modo per dare al tutto una dimensione più tattica

Questa impostazione ha un fascino unico che è anche difficile da spiegare in maniera scientifica, perché è un’amalgama di sensazioni visive (è bello godersi la scenografia e i ritmi un po’ teatrali delle battaglie a turni, soprattutto quando gli attori sono ben animati), godimento nella composizione del party, cercando di incastrare le caratteristiche di ogni personaggio (o lavorando sul job system), senso di progressione dato dalle abilità che si imparano ora dopo ora, effetto “puzzle game“. E non è quindi un caso che oggi, appena arriva un titolo, anche piccolo, che propone un gameplay di questo tipo, il pubblico raddrizzi le antenne.

I combattimenti di Xenoblade Chronicles X, complice anche l’imponenza dei mach, sono particolarmente scenografici.

Certamente ci sono anche delle eccezioni alla “regola dei turni”, con la saga Bandai Namco di Tales Of che, praticamente, non si è mai presa una pausa dal 1995 ad oggi, tra le prime opere ad inventarsi una variante action ai turni statici, inserita comunque in una struttura da JRPG classico, e il successo, pur circoscritto alle piattaforme Nintendo, di Xenoblade Chronicles. Tetsuya Takahashi, il creatore della serie, è uno dei più autorevoli director del genere e, nella sua carriera, ha messo le mani praticamente in tutti i più grandi successi Squaresoft degli anni ’90, in vari ruoli, per poi dare vita alla propria creatura, Xenogears, nel 1998; scegliendo poi di abbandonare la major per fondare il proprio studio, Monolith Soft, e creare la trilogia di Xenosaga prima e il poker di Xenoblade successivamente, evolvendo ogni volta lo stile e la struttura delle sue opere, indagando temi esistenziali, filosofici, mescolati ad atmosfere aliene, cyberpunk, anime. Dai turni del ’98 al combattimento in tempo reale delle ultime iterazioni, proponendo però sempre immaginari estremamente evocativi, immaginifici, ricercati, che spiccano nel mercato dei JRPG e non solo.

Luoghi dell’anima

Perché, infine, per capire la popolarità dei JRPG, bisogna parlare di quello che è forse il loro più grande pregio, ovvero proprio la capacità di proporre immaginari unici, capaci di restare per sempre impressi nella storia del medium. Quanti giocatori si sono innamorati grazie agli sfondi pre-renderizzati dei Final Fantasy PS1, di The Legend of Dragoon, alla perfetta pixel art di Chrono Trigger, agli scorci bucolici dei Dragon Quest tridimensionali, al Giappone contemporaneo di Persona o ai mondi extraterrestri, magico-scientifici di Xenoblade? Rifugi virtuali capaci di portare anima e corpo di un altro luogo, tanto artefatto quanto illusorio, percepito come tangibile, reale. È un’arte che fa sembrare gli sviluppatori giapponesi degli stregoni perché, certi picchi, paiono sempre irraggiungibili per i dev occidentali che si cimentano, trovando spesso soluzioni geniali lato gameplay ma (per lo meno a mio gusto) faticando a rendere indimenticabili i loro mondi (spesso, comunque, molto belli e ben caratterizzati).

Qualche giorno di ferie qua non ve lo fareste?

Semplicemente, le migliori ambientazioni dei giochi di ruolo giapponesi sono anche tra le migliori ambientazioni di tutto il medium. Il primo impatto con Midgar, la notte, l’atmosfera industriale, il reattore Mako fluorescente in lontananza, obiettivo del nostro attacco eco-terroristico. L’arrivo a Furni in The Legend of Dragoon, una città sull’acqua che pare un misto di architetture tra Mykonos e Alberobello. Io, che amo i miei luoghi dell’anima reali, tra le valli piacentine, mi ritrovo a volte a pensare “ma qua sembra troppo Dragon Quest” quando vedo una chiesetta in cima ad una collina, il cielo azzurro e l’erba verde, rigogliosa, tanto che mi viene voglia di entrare e salvare la partita, registrare la giornata nella mia memoria per sempre.

le migliori ambientazioni dei giochi di ruolo giapponesi sono anche tra le migliori ambientazioni di tutto il medium

Ma pure il bar di Sojiro in Persona 5, luogo di relax tra una scorribanda e l’altra dei Ladri Fantasma, con Beneath tha Mask che suona e lenisce l’anima, qualsiasi sia stata la nostra giornata e il nostro mood pad alla mano. Le colonne sonore del genere sono infatti un altro aspetto fondamentale nella caratterizzazione del JRPG. Su YouTube sono tra le playlist più numerose e ascoltate, rilassanti, esaltanti, capaci di far sentire leggeri chi le ascolta, mentalmente in vacanza. Come Nobuo Uematsu insegna, creare la colonna sonora di un JRPG è creare l’essenza culturale del mondo che deve raccontare. La soudtrack giusta indirizza il mood, descrive i luoghi, diventa cicerone per chi in questi mondi è nuovo, appena atterrato, spaesato, ammaliato.

Il Cafè Leblanc è il classico bar di quartiere dove andarsi a rilassare dopo lavoro.

È forse proprio nelle musiche che risiede il cuore di questo genere “creatore di mondi”, composizioni che fanno sognare e che, se ascoltate in modo estemporaneo, magari a lavoro, fanno venire voglia di tuffarcisi dentro una volta tornati a casa. Chiunque sia appassionato di giochi di ruolo ha la propria traccia preferita, quella che quando parte riporta alla memoria istantaneamente momenti, periodi, luci, colori, ricordi di vita. Per me è quella del Garden di Balamb in Final Fantasy VIII; mi sembra di essere lì, 8 anni, durante le vacanze estive, il caldo sulla pelle, la luce che filtra dalle tende della mia camera, la meraviglia negli occhi, un sentimento totalmente privo di nostalgia perché talmente vivido da sembrare reale. Il tutto scatenato da poche note, il senso ultimo dell’arte. Tutto questo rende certi videogiochi più che un genere uno stato d’animo, un richiamo, il posto preferito dove rigenerarsi. Opere che sono più della somma dei singoli elementi ludici e artistici che le compongono, rendendo spesso anche complicato descriverne il fascino in termini oggettivi; sta di fatto che il JRPG non è mai morto e, oggi, si può dire, è più vivo che mai!

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