Mentre giocavo a The Division ragionavo su Destiny. Nei due anni di attività del gioco Bungie ho assaporato ogni dettaglio, sia per quanto riguarda la campagna principale, sia godendo dell’ottimo multiplayer. I malumori di taluni riguardo Destiny sono cosa nota, e tuttavia, discutendone con altre persone o utenti del web, ho avuto talvolta la faccia tosta di arrampicarmi sugli specchi pur di difenderlo. Ero consapevole che, in realtà, stavo propugnando la causa di qualcosa che, sotto l’aspetto del sostegno alla novità o alla progressione, aveva fatto un po’ perdere la bussola allo stesso sviluppatore. Prendiamo, ad esempio, l’aggiornamento di inizio anno con la corsa degli Astori: inserito, provato, tolto e mai più riproposto, almeno per ora. Un chiaro esempio di come in Bungie, almeno sotto questo aspetto, stiano brancolando nel buio. Ed è pur vero che tra me e Destiny c’è un po’ quel sentimento tipico della coppia che condivide le giornate da così tanti anni da far assopire l’amore, ma da renderci comunque uniti per una questione di affettività.
Su The Division sto nutrendo eguali dubbi dopo la pubblicazione della prima Incursione, che è tutto tranne che un vero e proprio raid, dato che mi sono trovato nella situazione di abbattere orde infiniti di nemici con la ciliegina del tank, e nulla più. Detto ciò, non è tanto questo l’oggetto del ragionamento che vorrei portare alla vostra attenzione, bensì alcune feature che rendono i due titoli molto differenti. Uno tra questi è il modo di intendere il free roaming, cosa presente in The Division ma solo in misura estremamente parziale in Destiny, con le sue macroaree isanziate. Parlo insomma del “fattore open world”, uno scheletro su cui si molti sviluppatori stanno basando interi progetti.
In The Division riusciamo a sentire viva una città morta
Tuttavia, se devo fermare nella mente un momento di svolta, ciò che credo abbia portato un terremoto nel modo di percepire il potenziale dei videogiochi e di una struttura open world è stata l’uscita di Grand Theft Auto III. Con il terzo capitolo della saga di Rockstar mi sono sentito per la prima volta libero di scegliere le azioni di gioco, l’ordine delle missioni da affrontare o anche solo dedicarmi alle quest secondarie senza avere l’obbligo di dover seguire per forza un percorso impostato. E questo nonostante prima di GTA III siano esistiti altri videogiochi (per lo più GdR su PC) che poggiavano le basi su una struttura simile. Ricordo ancora quando in Vice City, ormai a gioco concluso, passavo mezzore solo a girare per la città e ritirare l’incasso quotidiano di tutte le mie attività. Improvvisamente la trama si era trasformata in un valore che evolveva grazie alle mie azioni e non una mera scelta imposta dagli sviluppatori.
Un altro esempio che mi sento di tirare in ballo è Gothic, che con GTA III condivide l’anno di lancio (2001). Ho passato quasi un anno della mia vita sul GdR dei ragazzi di Piranha Bytes, ed è proprio in quelle terre che ho apprezzato l’importanza di interpretare un eroe senza nome, da costruire e crescere come un’estensione di me stesso. Ricordo di essere rimasto affascinato di come potessi addirittura scegliere la fazione cui legarmi: per quanto mi affascinasse l’idea del Campo Palude e di passare il tempo a farmi spinelli con il novizio Lester, la mia fiducia è sempre stata riposta nelle Ombre di Campo Vecchio. Se ripenso al tempo passato su Gothic non mi viene in mente la difficoltà nel raggiungere Xardas o nello sconfiggere il Dormiente, ma il divertimento a girare senza uno scopo per la vastissima mappa. Avanzavo a piccoli passi, provavo piacere a fare passeggiate, cacciavo selvaggina per rivenderla e ottenere così armature più belle, solo per un fattore estetico. Gothic aveva nelle sue corde un abbozzo ancora grezzo di survival-game per il quale andavo matto.
Quello di Gothic è l’esempio perfetto per spiegare come la necessità odierna di un titolo open world non sia fornire al giocatore una mappa sempre più grande, bensì renderla viva, interessante, unica nel suo genere: un aspetto, questo, che molti sviluppatori hanno troppo spesso la tendenza a trascurare. Non basta farcire una mappa di edifici e lavorare nei piccoli dettagli, ma serve donare anche a un semplice cespuglio o a un fiore quella personalità capace di trasformare in indimenticabile anche una mera passeggiata. Per dire, ancora oggi avrei più voglia di rituffarmi all’interno della Barriera di Gothic che nella Chicago di Watch Dogs. Il titolo di Ubisoft aveva spinto troppo, in fase di comunicazione pre-lancio, sulla totale interattività del giocatore con la città e con ogni dispositivo: una feature che, a mio avviso, non è stata sviluppata al massimo delle potenzialità, lasciandomi addosso l’idea di un prodotto abbastanza blando, tanto che l’ho abbandonato dopo neanche una decina d’ore, nonostante una storia a tratti interessante.
La necessità odierna di un titolo open world non è fornire al giocatore una mappa sempre più grande, bensì renderla viva, interessante e unica
Un open world ben pensato deve affidare al giocatore non solo il controllo totale della storia ma anche il destino di alcuni avvenimenti, per quanto secondari. Prendendo ancora Gothic come pietra di paragone, ciò che rendeva il mondo credibile era la possibilità di fare qualunque cosa, di entrare in una qualsiasi delle case, di derubare e uccidere personaggi financo fondamentali per la storia; tutto ricadeva sugli eventi successivi, ed erano scelte che competevano solo ed esclusivamente a noi. Proprio per questo ultimamente sono riuscito ad apprezzare The Division, che regala la possibilità di passeggiare in una New York dal grande impatto anche nei singoli dettagli, dove il silenzio è padrone di tutto. È assolutamente fantastico come il suono e il silenzio riesca a regalare un impatto così forte con il videogiocatore: riusciamo a sentire viva una città morta.
Posso darvi un consiglio? Guardatevi il docudrama The Gamechangers, realizzato dalla BBC e con Daniel Radcliffe (l’Harry Potter cinematografico) a interpretare Sam Hauser, fondatore di Rockstar Games e mente dietro tutti i capitoli di GTA. Il film, concentrandosi sul periodo di lancio di GTA: Vice City prima e San Andreas poi, mostra una punto di vista originale su come è visto il concetto di open world nei giochi Rockstar, che possono essere quasi fatti passare come un tutorial di vita criminale. Rubare un’auto e riverniciarla nel gioco non viene vista come una sequenza di puro “divertimento”, ma quasi come una guida su come evitare di essere arrestati dopo aver effettuato un furto per davvero. Non si tratta tanto della classica polemica della violenza nei videogiochi, quanto dell’impatto sul videogiocatore che regala un open world così ricco e dettagliato da rendere labile il confine tra la vita reale e quella virtuale.
Il tema portante dell'articolo sembra essere l'importanza del free roaming. Tuttavia, leggendo, sembra ci sia anche un altro macrotema ed è più in generale il fattore che porta un videogioco ad essere speciale. Concetto declinato sul free roaming ma sul quale in generale (appunto perchè sul tema free roaming nn ho esperienza fresca) vorrei fare delle considerazioni che riguardano tutti i videogiochi.
E' proprio la personalità di un videogioco la caratteristica che ce lo fa scegliere di più e nel tempo, che insomma lo rende speciale e migliore di altri. Non la grafica non le idee originali in se (magari una serie di idee si).....cosa ci sia dentro la personalità di un videogioco è la domanda da un milione di dollari....ma se nn altro avere questo chiaro in mente può sgomberare il campo dalle illusioni che la grafica ed altre stronzate possono creare (è un tema trito e ritrito ma è attuale perchè, attualmente ad esempio lo si declina sui free roaming)....una serie di idee buone da personalità ad un gioco, ma più esattamente per me è il livello di coinvolgimento che mi crea. Individuare la formula (magica?) sta agli sviluppatori (ed ai dannati produttori).
Io sul free roaming posso dire che Gta Vice city (all'epoca, e i gta li ho giocati visceralmente, eccetto il 5 tt) è il gioco che più mi faceva girovagare felicemente, continuamente e entusiastamente. Più di San Andreas che era un free roaming certamente molto più evoluto. La cosa che invece volevo condividere è che Gta I (si uno) e Gta II (si due) davano, nel 97/98 (ed ERANO free roaming) un grandissimo senso di libertà! Nonostante una grafica stra vecchia (e limitante) già per gli standard del periodo....altro che Vice city....cioè: in Vice city (uno dei miei giochi preferiti e x me il migliore della serie Gta) io ho assaporato il piacere di girovagare come non mai, ma....I FATTI CHE DIMOSTRANO CHE NON E' LA GRAFICA A RENDERE ECCEZIONALE E FANTASTICO UN GIOCO (la grafica può ostacolare, peggiorare ma non essere ciò che rende un gioco eccezionale....la grafica può migliorare ed esaltare non rendere un gioco tale), ED UN GIOCO FREE ROAMING, SONO GTA I E GTA II (NON TANTO VICE CITY).... ovvio che in San Andreas ho girovagato di più, ma relativizzando il tutto si ricava che già gta I era un gioco eccezionale e difatti per me gta 3 nn è stata tutta questa rivoluzione di cui si è parlato: la rivoluzione la avevo già assaporata (e forse anche l'autore dell'articolo, solo che forse parlare di gta I a proposito di free roaming oggi può davvero nn rendere l'idea perchè molti nn lo hanno giocato), ed i programmatori lo sapevano già: il grande pubblico la ha scoperta con GTA 3.....come giochi nn free roaming se ne potrebbero citare tanti.
Cmq menzione d'onore a Gta I e II. Tanto successo di pubblico hanno avuto i capitoli dal 3 in poi (tutto meritato), quanto poco apprezzati da osservatori critici (non dalle masse di giocatori, quello mi sembra ovvio) sono stati gta I e II