Non tutti i giochi sono destinati a fama e gloria decennale. La maggior parte di essi conosce una inevitabile parabola, e vedono la loro popolarità declinare nel giro di un tempo relativamente limitato, spesso ben lontano dai riflettori. Per altri, invece, il declino è tanto rapido quanto sotto gli occhi di tutti: è stato il caso, per esempio, di Battleborn.
Quella di Gearbox Software è una storia un po’ particolare, caratterizzata da alti e bassi. Dopo un periodo iniziale passato a lavorare alle IP di altri (Half Life, Halo, James Bond), nel 2005 lo studio debutta con la sua prima proprietà originale, la serie Brothers in Arms. Tre titoli fortemente ispirati dalla serie TV Band of Brothers, della quale riescono a catturare efficacemente lo spirito di cameratismo e le avversità e tragedie che un piccolo gruppo di soldati si trova ad affrontare sui campi della Seconda Guerra Mondiale. Nel 2009, arriva il cambio di scenario: Francia e Germania lasciano il posto al desertico pianeta di Pandora e alle storie molto più pazze ed esagerate di un gruppo di Cacciatori della Cripta: Borderlands prima e il suo seguito del 2012 poi lanciarono lo studio texano verso nuove vette di popolarità.
BATTLEBORN NON FU IL PRIMO TONFO DI GEARBOX: DUKE NUKEM FOREVER E ALIENS: COLONIAL MARINES SONO DUE ILLUSTRI PREDECESSORI

Potete criticare quello che volete di Battleborn, ma causare scompiglio con Montana era troppo divertente.
Dopo una serie di giochi incentrati sull’aspetto singleplayer/cooperativo, Battleborn fu il primo tentativo di Gearbox Software di infilarsi nel multiplayer competitivo, con un cosiddetto “hero shooter”. Il fortunato avvento dei MOBA spinse vari sviluppatori a sperimentare con meccaniche simili anche in altri generi, e chi meglio di quello che studio che già aveva unito efficacemente le meccaniche di FPS e hack ‘n slash per cercare di ripetere l’impresa con una nuova commistione di generi?
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