Se questo è Call of Duty

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È bastata una presentazione e qualche dichiarazione a metà strada tra il marketing e l’espressione di una visione creativa a rendere Call of Duty: WWII il gioco del momento, nonché già un chiacchieratissimo episodio del franchise Activision. Il motivo, al di là della “colpa” di chiamarsi CoD, risiede nelle dichiarazioni del game director Bret Robbins, riportate inizialmente da Mashable, riguardo la campagna single player: “Non vogliamo evitare la Storia. Vogliamo essere rispettosi. Sono accadute cose davvero oscure durante il conflitto, e sarebbe stato profondamente sbagliato da parte nostra ignorarle”. Parole precise, cui si aggiungono riferimenti più chiari all’antisemitismo e al razzismo, e al fatto che la diversità – anche nello schieramento degli Alleati – non era considerato certo sempre un valore di arricchimento.

È probabile che la narrazione di WWII si ispiri a Band of Brothers, e tratterà dell’Olocausto in quel modo

Le parole di Robbins suonano come una chiara dichiarazione di intenti, nonché il rovesciamento di quella coltre di nubi che, nel mondo dei videogiochi, aleggia da sempre sull’Olocausto e i temi più scabrosi del secondo conflitto mondiale. Per utilizzare sempre le parole di Robbins, si tratta di “una questione di maturità… il pubblico è pronto”. Sarà così? Forse, eppure sono bastate poche frasi a scatenare un primo vespaio di commenti. La questione fondamentale è se Call of Duty, data la sua natura mainstream, fracassona e, se vogliamo, superficiale, sia adatta, come IP, a toccare argomenti del genere e, soprattutto, se il suo pubblico fatto in maggioranza di ragazzini pronti a insultarsi in multiplayer sia in grado di recepirlo. È chiaro che finché WWII non arriva nei negozi le chiacchiere stanno a zero ma, sebbene alcuni commenti sotto gli articoli riportati alla notizia facciano accapponare la pelle (ma è il gioco di internet, e il pubblico, in questo, va educato attraverso prodotti maturi), mi permetto di pensare che abbia ragione Robbins.

Intanto, è chiaro che Call of Duty: WWII non sarà un gioco incentrato sull’Olocausto e che, parlando della Prima Divisione di fanteria dell’esercito americano, è possibile (ma è una speculazione sulla base dei dettagli emersi finora) che i campi di concentramento potrebbero comparire verso la fine dell’avventura, magari durante le azioni di liberazione di Zwodau, Falkenau, o comunque nella zona di Flossenburg. In ogni caso mi auguro (e ipotizzo) che il tema sia trattato in stile Band of Brothers, in cui l’umanità della vicenda emerge in maniera chiara e atroce, più che in modo politico e sistematico. D’altronde, gli storici della miniserie di HBO sono stati ingaggiati da Sledgehammer Games per lavorare all’ambientazione del gioco, e l’aria di famiglia emerge sin dal trailer. È palese, infatti, che la narrazione del nuovo CoD si ispiri a quel tipo di narrazione, e sottolineare il ruolo delle tante figure coinvolte nel conflitto è palesemente un modo di allargare il cerchio e rendere tutti più coinvolti dalla vicenda. Il tentativo di Sledgehammer mi sembra genuino e tutto sommato giusto, nella misura in cui, quella volontà del pubblico citata da Robbins mi pare sensata. D’altronde, il pubblico mainstream si sta abituando a racconti diversi, inclusivi e umani, capaci di guardare a un fenomeno storico in maniera sicuramente diversa da quanto accadesse fino a pochi anni fa.

È facile raccontarsi che il medium sia maturo sulla base di produzioni minori, ma sono i COD di turno a doverlo dimostrare

Resta da capire se Call of Duty sia l’IP giusta per fare un discorso del genere, ma credo che l’aspetto narrativo esprima proprio la volontà di cambiare target, o quantomeno di puntare – dopo tanti anni a questa parte – a un pubblico diverso e fare qualcosa di differente per risollevare un brand prigioniero di se stesso. È chiaro che parlare di inclusione, di umanità e di diversità è anche un’operazione “simpatia” in linea con i tempi che corrono, nel tentativo di vendere ancor prima di arrivare sul mercato. In questo senso, però, le parole di Robbins rappresentano anche una scommessa enorme, perché espongono il gioco a delle aspettative che, se verranno disattese, rischiano di esporre l’IP a un rinculo mediatico pesante, perché è chiaro che su argomenti così seri come l’Olocausto non si può sbagliare.

A mio avviso, però, sono proprio IP del genere che devono prendersi la responsabilità di portare nei videogiochi argomenti del genere, perché è facile raccontarsi che il medium sia maturo sulla base di scelte artistiche e contenutistiche di produzioni minori, ma finché non è il CoD di turno a dimostrarlo è evidente che non si possa fare un discorso generale, nonostante, per fortuna, la tendenza nei tripla A sia ultimamente confortante. Si tratta di un rischio enorme: laddove la scrittura di WWII fosse totalmente fuori fuoco, lo scotto da pagare sarebbe purtroppo aumentare il novero delle occasioni sprecate per dimostrare quanto la ricerca della maturità non sia soltanto qualcosa che viene dal pubblico abituato a narrazioni più adulte, ma un’esigenza di un mercato e di un settore che finalmente non ha più il timore di confrontarsi con temi scottanti di dominio pubblico. Nonostante non sia un grande appassionato della serie, dunque, quest’anno sono pronto a scendere sul campo di battaglia, perché Call of Duty, per una volta, non sarà soltanto lo sparatutto ignorante campione di vendite, o almeno è quello che dovremmo sperare tutti. Forza Sledghammer Games!

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