Ho letto con grande trasporto l’editoriale di Belboz la scorsa settimana, sull’orgogliosa voglia di restare offline. Anch’io, per buona parte della mia vicenda di videogiocatore, sono stato convinto che le esperienze single player fossero le uniche in grado di avvolgermi in un racconto interattivo, e per tantissimi aspetti continuo a preferirle. A un certo punto della mia storia, però, la bellezza di alcuni episodi di “vita giocata” in multiplayer mi hanno portato a guardare con occhio diverso alla questione, come se una specie di trama potesse provenire anche dalle sponde competitive online.
Grossomodo era la fine del 1999, e la colpa era sempre di TGM: avevo in casa la prima connessione adatta per giocare i titoli più frenetici, e decisi di affiancare a Unreal Tournament (Quake III è venuto dopo, nel mio caso) le peculiari atmosfere online di Starsiege Tribes, complici le immagini e le giuste grida di giubilo da parte del recensore (qui il discreto pronipote Tribes Ascend, in teoria free to play, ma solo se vuoi farti ammazzare). Come un vero niubbo mi ero immediatamente fissato con gli esoscheletri pesanti, i più lenti e tattici da usare, cercando comunque di aggirare il nemico e attaccarlo dal fianco senza, però, aver con me la giusta scorta; manco a dirlo, in quelle improvvide due o tre partite succedeva sempre di incontrare avversari più veloci con la stessa idea, e dunque di finire riverso sul fianco di qualche duna.
Tribes fu in grado di raccontarmi piccole storie, anche senza parlare
Quando me ne andai a letto ripensai a tutta la faccenda, come generalmente faccio con romanzi, film e videogiochi single player, per propiziare un sonno placido ma fantasioso. Non le dinamiche di gioco, come maniacalmente mi trovo a fare per alcuni titoli più difficili, ma proprio la sequenza che aveva spontaneamente preso vita davanti ai miei occhi, “riprocessata” attraverso la GPU del cervello. Lo sentii come il passaggio puramente action di un romanzo, e istintivamente ricordai la volta in cui avevo fortissimamente desiderato “giocare” il racconto del Colonnello Kassad in Hyperion, tra le sequenze d’azione più intense che abbia mai letto in un libro.
D’altra parte, solo i ricordi memorabili vengono trattenuti sulla lunga distanza, e non tutti i giochi competitivi online mi hanno fatto lo stesso effetto. Ho passato bei momenti anche nella foga degli sparatutto, quando ancora la “skill” del rapporto uccisioni/morti veniva evidenziata in qualsiasi FPS multiplayer, ma sono rimasto affascinato solo dalle esperienze con un respiro più ampio, pur senza mai diventare un assiduo frequentatore di MMOG. I giochi online fanno nascere amicizie, e ogni tanto le distruggono pure, ma per me sono state anche veicoli di storie, al punto da ricordare alcuni periodi più recenti, come quelli su PlanetSide 2 o DayZ, come una costellazione di piccoli racconti: magari si è trattato di ritrovare il corpo di un glorioso avatar precedente, in una versione quasi mistica del permadeath, oppure di “intervistare” in chat i predoni di Chernarus prima di venir giustiziato, sempre nel gioco di Dean Hall e Bohemia, o ancora di attaccare una fortezza insieme a centinaia di uomini come nel più colossale degli scontri campali, ovviamente nel titolo di Daybreak Game. In questi casi c’è stato qualcosa di più della semplice voglia di sfogare i nervi, e d’altronde si tratta di due prodotti alquanto particolari per pubblico e impostazione.
Ricordo le esperienze su PlanetSide 2 e DayZ come una costellazione di piccoli racconti
Solo Titanfall 2 è riuscito recentemente a fare il miracolo (specie nella modalità con i soli Titan, davvero da urlo), ovvero a farmi combattere in un contesto che sentivo vivo e avvolgente anche in multiplayer. A tratti è riuscito a farlo anche GTA Online, e questo perché l’incanto non dipende da regole precise, dalla presenza o meno di PNG, dall’apertura dello scenario o da altri dettagli, ma dalla capacità di offrire un sistema di gioco così ben fatto e coerente, persino nel ludibrio del prossimo, da fartelo vivere come un insieme di storie. Poi, ecco, ci sono pure i casi estremi come Elite Dangerous, in cui persino incontrare qualcuno fa parte di un processo di immedesimazione realistica: ricordo ancora l’esplorazione insieme ad Astrotasso, con Ferrara e Carrara unite nello Spazio, e solo nelle zone di guerra della Via Lattea ho immaginato davvero “i raggi B balenare nel buio, vicino alle porte di Tannhäuser“. Un luogo del genere neppure esiste: potrò pure immaginarmelo come voglio, o no?