Da poco entrato in Accesso Anticipato, Six Days in Fallujah ci porta a combattere in una città irachena promettendo di rappresentare la guerra moderna come non l’avete mai vista.
Sviluppatore / Publisher: Highwire Games / Victura Prezzo: 38,99€ Localizzazione: Testi Multiplayer: Online Cooperativo PEGI: ND Disponibile Su: PC (Steam); prossimamente su PS5, Xbox Series X|S Data di lancio: Già disponibile (Steam, Accesso Anticipato)
Nel novembre del 2004 poco più di dodicimila soldati americani ed iracheni, con il supporto di un battaglione inglese, si preparano ad entrare nella città di Fallujah. Non è la prima volta che la Città delle Moschee vede azioni militari nel corso di quell’anno. Già nel marzo del 2004, in seguito all’uccisione di alcuni mercenari della compagnia militare privata americana Blackwater, l’esercito statunitense aveva deciso di entrare in città per liberarla dai ribelli che, dopo la caduta di Saddam Hussein, avevano continuato a tiranneggiare sulla popolazione locale e a lanciare attacchi verso gli americani e i loro alleati. Ma quell’operazione era stata fondamentalmente un insuccesso.
Nel giro di poche settimane gli insorti sotto la guida del numero uno di Al Qaeda in Iraq, Abu Musab al-Zarqawi, l’avevano nuovamente presidiata prendendone il controllo e tramutandola in una vera e propria fortezza. Six Days in Fallujah ci racconta proprio il secondo tentativo americano di espugnare la cittadina.
SIX DAYS IN FALLUJAH: LA GUERRA VERA
I fatti che portano alla seconda guerra del Golfo (la prima risale al 1990, questa al 2003) sono, per usare un eufemismo, complicati. È infatti il culmine dei decennali rapporti fra gli Stati Uniti e il dittatore iracheno Saddam Hussein, inizialmente supportato dai primi in funzione anti-iraniana e poi sempre più allontanatosi dall’influenza americana. Questo deteriorarsi dei rapporti raggiunge i suoi picchi nella già citata Prima Guerra del Golfo, che vede l’Iraq invadere il Kuwait, e nella seconda, che prende il suo via nel teso periodo seguente all’attentato dell’11 settembre e nel contesto della cosiddetta War on Terror e che ha come obiettivo l’abbattimento del regime di Saddam Hussein. Quest’ultimo, responsabile di numerosi crimini in particolare nei confronti della popolazione curda, viene accusato di dare rifugio a gruppi terroristici e di nascondere armi di distruzione di massa. È proprio questo il controverso motivo (controverso perché di queste armi non viene mai trovata traccia, né prima né dopo il conflitto) che giustifica la dichiarazione di guerra degli americani allora guidati dal presidente George W. Bush, nel marzo del 2003. Ci vuole poco per deporre Saddam Hussein – appena una ventina di giorni – ma il caso non finisce lì. L’Iraq, privo di una leadership forte, diviene una nazione costellata di nuclei di insorgenti e di foreign fighters delle più diverse provenienze.

Quel simbolo bianco che vedete sull’obiettivo è uno dei pochi elementi “virtuali” dell’interfaccia di gioco.
SIX DAYS IN FALLUJAH NON VUOLE ESSERE IL SOLITO GIOCO SULLA GUERRA
GIOCO-DOCUMENTARIO… NON ANCORA, PERÒ
Allo stato attuale delle cose, è difficile dire se Six Days in Fallujah riesca davvero nel suo scopo. All’inizio, veniamo accolti da video introduttivi realizzati utilizzando riprese sul campo che spiegano, in maniera perfino più rapida di quanto abbia fatto io sopra, gli eventi bellici. Le schermate di caricamento includono citazioni di soldati e sottufficiali che a Fallujah ci sono stati, in quelle giornate di novembre. Ma, per quanto sia materiale indubbiamente degno d’interesse, si tratta di poca roba: due video di pochi minuti e qualche frase sparsa. Impossibile, dunque, sapere se e come Victura e Highwire affronteranno anche i temi più controversi dell’operato americano, come il tanto discusso uso del fosforo bianco o dei proiettili all’uranio impoverito, o le perduranti conseguenze della battaglia per la popolazione civile.
NON È ANCORA POSSIBILE VALUTARE SE IL GIOCO RIESCA O FALLISCA NELLA SUA AMBIZIONE DI ESSERE UN DOCUMENTARIO

Alla morte, avremo ancora una possibilità di tornare in gioco. Certo, sempre che i nostri compagni decidano di tornare all’AAV.
Tocca dunque affidarsi al matchmaking, ma chiaramente siamo di fronte a un terno al lotto: i compagni poco comunicativi sono stati la regola, e rare le occasioni di vera cooperazione (l’unica partita veramente positiva, purtroppo conclusasi in maniera sfortunata, è stata quando il caso mi ha assegnato tre altri giocatori italiani). Dato che il gioco adotta un sistema peer to peer, capitano anche le occasionali disconnessioni. E al di là di queste considerazioni, il gioco stesso fatica a convincere.
SE SI PUÒ APPREZZARE IL REALISMO DI TANTI PICCOLI DETTAGLI, ALTRE COSE FANNO STORCERE IL NASO

All’inizio di ogni missione (casuale), ci verrà assegnata una classe (casuale). Ciascuna ha il suo armamentario.
Questo, naturalmente, non vuol dire che le missioni siano facili. Fra la già citata letalità – non solo delle armi di piccolo calibro: sperate che non vi capiti mai la variante delle missioni in cui dei mortai iniziano a sparare alla vostra squadra – e obiettivi spesso non chiarissimi, arrivare a completare il compito che ci è stato dato è tutt’altro che semplice e richiede buona coordinazione e consapevolezza del campo da parte dei membri della squadra.
UN ACCESSO MOLTO ANTICIPATO
Anche a livello tecnico il gioco non è certo da gridare al miracolo. Faccio un esempio: vedo un miliziano in lontananza. Sparo qualche colpo, non lo colpisco. Ne sparo qualche altro, niente. Mi avvicino, e scopro che in realtà in mezzo c’era una porta metallica. Per carità, effetti di popup simili, o di elementi visivi non caricati, non sono all’ordine del giorno ma nemmeno impossibili da notare; ben più frequente, invece, un certo effetto sfarfallio sui bordi di muri ed edifici.
ALLO STATO ATTUALE DELLE COSE, È DIFFICILE CONSIGLIARE SIX DAYS IN FALLUJAH