Ho una piccola patologia, lo ammetto: quando affronto un videogioco, lo faccio con la meticolosità di chi non riesce ad andare avanti se non ha esplorato tutto di ogni stanza, di ogni angolo, di ogni singolo fottuto pixel. Non esiste che io prosegua oltre, senza aver ripulito una zona al massimo delle possibilità. Ciò mi crea non pochi problemi, specie quando si tratta di recensire un titolo che ha un embargo stringente o, ancor di più, quando c’è di mezzo un inventario limitato, che mi costringe a operare scelte dolorose. Ci stavo ragionando proprio ieri sera: il cuore non ne voleva sapere di farmi abbandonare una zona opzionale di God of War (di cui – vi ricordo – pubblicheremo la recensione il prossimo 12 aprile, alle ore 9:00) senza aver risolto l’ultimo enigma, mentre la vocina della ragione mi sussurrava all’orecchio che – dopo due ore infruttuose – era proprio il caso di lasciar perdere e di proseguire lungo la via maestra. A distanza di anni, peraltro, porto ancora i segni della faticaccia profusa su Batman Arkham City, dove gli spot dell’Enigmista mi distraevano come infingarde sirene, mentre il ticchettio dell’orologio che scandiva la distanza dalla pubblicazione della recensione batteva nella testa come un fastidiosissimo martello.
Questa malattia ha come corollario la compulsiva mania di collezionare qualunque schifezza, perché insomma… prima o poi potrebbe tornare utile in qualche modo. Prendiamo Fallout 3, ad esempio (ma va bene qualsiasi altro titolo che permetta l’accumulo indiscriminato di roba): la mia casa in quel di Megaton è un ammasso di porcheria che nemmeno la più incasinata delle discariche comunali sarebbe in grado di sostenere; eppure è tutto ancora lì, a un solo clic di distanza dall’inventario. Roba inutile, tenuta da parte perché “vai a sapere”, quasi alla stregua del cimitero dell’hardware di cui ci ha parlato il buon Claudio Todeschini un po’ di tempo fa in questo editoriale, solo in formato digitale.
Il collezionismo feroce fa parte del mio essere videogiocatore
Inutile mentire a me stesso: non ce la faccio, è più forte di me. Il collezionismo feroce fa parte del mio essere videogiocatore, così come lo sta diventando lo stramaledetto Photo Mode, che – quando c’è – mi “costringe” a stoppare continuamente il fluire dell’azione, perché come fai a non immortalare quel momento lì con quell’inquadratura là? Mai mollare nulla, insomma: ogni volta che mi viene in mente di lasciar perdere una missione secondaria, nella testa si accende l’immagine del nostro Marco Tassani vestito da Padre Maronno che mi ammonisce con un laconico “e se poi te ne penti?”. Eh già…