Scrivo questo editoriale nei giorni in cui sto giocando per la (credo) quarta volta il primo Syberia, sia per puro piacere personale, sia per arrivare fresco a The World Before, testamento del compianto genio Benoit Sokal, in uscita questi primi mesi dell’anno. E mentre passeggiavo per i corridoi dell’università di Barrockstadt, decadente quanto ancora ricca di sapienza, con la stazione ferroviaria trasformata in una voliera e quell’architettura in “stile Novecento” che mi ricorda sempre il Palazzo di Giustizia di Milano, mi è capitato di pensare quanto sia prezioso il gesto di rigiocare le nostre opere ludiche preferite (e non, perché no?). Una run consapevole, non offuscata dalle aspettative, da quella voglia di “consumare” e sentirsi parte del trend di quel momento; oppure semplicemente riscoprire più lentamente qualcosa che ci è piaciuto, o capire perché invece non c’era piaciuto qualcosa, osservarne i dettagli, concedersi dello “slow gaming” benefico e, magari, rivelatore.
Spesso, soprattutto oggi, tra Game Pass, saldi, giochi regalati mensilmente sui vari store digitali (e ben vengano eh, sia chiaro) si tende a trattare il videogioco come intrattenimento usa-e-getta, qualcosa da sbrigarsi a finire per passare ad altro, senza soffermarsi, lasciar decantare l’esperienza, assimilando poco e alimentando un circolo vizioso che spesso porta a un disinnamoramento generale o a critiche poco centrate. Un modus operandi che invece nell’era 8-16 bit era totalmente ribaltato, con opere che venivano spesso portate al limite, sezionate e dominate partita dopo partita, svelandone tutti i segreti nascosti nel codice: anche per questioni di necessità (soldi) e reperibilità (meno uscite) in epoche totalmente diverse. Il fatto è che il (buon) videogioco vive di sfumature emotive, sensoriali e ludiche che spesso si manifestano tutte insieme, rendendo difficile coglierle in tutto il loro bouquet al primo colpo.
RIPRENDERE IN MANO UN GIOCO GIÀ FINITO CI PUÒ AIUTARE A VEDERLO SOTTO UNA NUOVA LUCE, A SCOPRIRNE NUOVI DETTAGLI, AD ASSIMILARLO MEGLIO
L’elemento sorpresa della prima volta viene sostituito da un’immersione ancora più profonda, esaltata da un controllo ormai acquisito sulle meccaniche di gioco (è un po’ la magia dei “new game+” nelle opere di Miyazaki per esempio, no?) che lascia spazio alla sperimentazione, alla ricerca del dettaglio e soprattutto allo studio (e qui parlo soprattutto per noi critici), lasciando emergere tanto le ambizioni del game design quanto quelle caratteristiche minori, nascoste nell’impatto generale ma determinanti, che siano una particolare animazione che non avevamo notato, un sottofondo audiovisivo capace di amalgamare l’atmosfera, la battuta di un NPC ascoltata in una taverna o, curiosità recente ed esempio pratico, i temporali in Breath of the Wild che creano piccoli laghetti che poi si asciugano dinamicamente sotto il sole nel corso della giornata virtuale, caratteristica da me “scoperta” a cinque anni dall’uscita.
al di là degli ovvi fini economici, remake e remaster aiutano a rinverdire esperienze sbiadite nei ricordi
Trovare un’oasi di relax ludico nella quale ristorarsi è estremamente prezioso, soprattutto coi ritmi con cui spesso viviamo la nostra quotidianità e che non dovrebbero essere applicati anche alle nostre ore di arricchimento/divertimento/scoperta, e lo dice chi (un po’ a nome di tutti) spesso deve fare i conti con embarghi e tempi stretti anche quando si tratta di giocare. Può essere anche un buon proposito per l’anno nuovo, provare a giocare meglio, magari meno, ma con più consapevolezza.