Il ritorno delle cinematic adventure

Classificare opere come Prince of Persia, Another World, Flashback e Oddworld: Abe’s Oddysee con l’etichetta di puzzle/platform l’ho sempre trovato abbastanza fuorviante, perché tende a ridurre ad una dimensione arcade e schematica quelli che a tutti gli effetti sono ancora dei perfetti ibridi ludo-cinematografici.

cinematic adventure

Gli screenshot di Another World sono ormai famosi come certi quadri.

Prodotti unici, capaci di dare vita a mondi coesi, vivi, credibili, decisamente meno astratti dei platform classici, più fisici e “realistici” anche nel sistema di controllo. Il 2D diventava un’inquadratura, un carrello, un piano sequenza per raccontare storie attraverso il gameplay, spingendo il giocatore a recitare attraverso il pad in scene fortemente scriptate, ritmate, spettacolari e registicamente complesse, raffinate, dove ogni retry era un nuovo ciak, una scena da rifare fino alla perfetta messinscena.

Il 2D diventava un’inquadratura, un carrello, un piano sequenza per raccontare storie attraverso il gameplay

I limiti della tecnologia rivoltati da sviluppatori visionari come Mechner e Chahi per tendersi verso quel cinema che i videogiochi hanno sempre visto come un punto d’arrivo, riuscendo, con largo anticipo, dove spesso le cut scene e il performance capture avrebbero fallito o solo sfiorato il bersaglio, emulando senza inventare un linguaggio proprio.
Eppure, proprio questo desiderio di emulare e virtualizzare il cinema diventò lo standard narrativo del videogioco tridimensionale, portando gradualmente alla scomparsa delle cinematic adventure (e anche dei punta-e-clicca), da metà anni ’90 fin quasi al 2010, quando mancavano pochi mesi all’uscita di un gioco che è ancora attualissimo e presente nella chiacchiera di settore, dimostrandone la grandezza e l’influenza. Limbo di Playdead è l’esempio perfetto di come resuscitare e rendere attualissimo un genere che sembrava ormai superato, sepolto. Il bianco e nero scelto per giocare con le silhouette, ingannare con la luce, permettere alle ombre di nascondere ogni genere di orrore, pericolo, sorpresa, sempre in agguato ai bordi dell’inquadratura.

Il desiderio di emulare e virtualizzare il cinema diventò lo standard narrativo del videogioco tridimensionale

Un gioco talmente rifinito che, giocato dall’inizio alla fine, senza game over, potrebbe tranquillamente essere scambiato per un film d’animazione d’autore, criptico ed emotivamente violentissimo come fu, ancor di più, il secondo titolo del team danese, Inside, probabilmente una delle opere più sconcertanti e straordinarie dell’ultimo decennio, un capolavoro capace di portare alle estreme conseguenze ludo-scenografiche le idee dietro Limbo.

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Limbo è freddo, umido e spaventoso, grazie al suo senso estetico.

Non sorprende quindi l’hype montato attorno all’imminente Somerville, con quelle pazzesche vibrazioni da Guerra dei Mondi, previsto per la prossima settimana e nato da una delle due anime di Playdead, il co-fondatore Dino Patti, ora a capo di Jumpship (dopo un addio abbastanza burrascoso con i suoi ex soci); un nuovo inizio che vuole proseguire l’evoluzione delle cinematic adventure, una strada che negli anni sempre più studi hanno percorso con notevoli risultati, dagli indipendenti alle major.

nell’ultimo decennio Ubisoft, EA e Bandai Namco hanno dato un contributo importantissimo alla causa del genere

Perché, forse un po’ a sorpresa, nell’ultimo decennio Ubisoft, EA e Bandai Namco hanno dato un contributo importantissimo alla causa del genere (da sviluppatori diretti o nel ruolo di publisher). Dal bellissimo Valiant Hearts, capace di raccontare la Grande Guerra con una sensibilità rara e attraverso un gameplay assolutamente centrato (sorretto da quel meraviglioso motore grafico che è l’UbiArt), ai due simpatici Unravel di ColdWood Interactive; dai giochi firmati Hazelight Studios dell’istrionico Josef Fares (altra personalità fortissima al servizio del genere), che ha portato quel tipo di game design su un binario parallelo, partendo dal più canonico Brothers e virando poi totalmente all’indole cooperativa con A Way Out e It Takes Two, fino a Tarsier Studios che, con due gioiellini horror come i Little Nightmares, ha fatto un lavoro straordinario dal punto di vista delle atmosfere e della costruzione di set piece indimenticabili.

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Non è un caso che Somerville sembri quasi un perfetto mix di Another World e Limbo.

Anni in cui la stessa Oddworld Inhabitants è tornata alle origini con Soulstorm (uscito un anno fa con un risultato tra alti e bassi), dopo deviazioni strategiche e bizzarri FPS e dove Devolver Digital ha scoperto il talento di Leonard Menchiari, già autore di uno spettacolare tributo ad Another World e Flashback come The Eternal Castle, e quest’anno co-autore di una lettera d’amore al cinema giapponese e alla mitologia del Sol Levante come Trek to Yomi, in collaborazione con Flying Wild Hog, (ma autore anche di Riot: Civil Unrest, chiacchierato RTS/simulatore di rivolta accusato di “apologia di violenza” dal Coisp, all’epoca) ricco di fortissime suggestioni estetiche.

Olija coincide con una netta maturazione narrativa del videogioco

Sottovalutato e poco chiacchierato ma sempre parte della scuderia Devolver anche Olija di Skeleton Crew Studio, avventura esotica ed esoterica che sembra un incontro tra l’Isola del Tesoro e Le Mille e Una Notte; un po’ un Prince of Persia modernoNon è un caso che questo revival coincida con una netta maturazione narrativa del videogioco, che sempre di più sta riuscendo (quando possibile) a staccarsi da certe consuetudini e loop (come il classico cut scene-gameplay-cut scene), amalgamando sempre più il racconto al gameplay e viceversa, senza stacchi netti, abbracciando quella definizione di cinematic” come la intendeva Eric Chahi nel ’91 (con The Last of Us Part II e Red Dead Redemption 2 a spiccare tra i titoli ad altissimo budget), fortemente basata sull’interattività.

i doppia A applicano le regole della cinematic adventure a fondamenta di gameplay tipiche dei primi anni 2000, creando interessanti ibridi

Ma è anche una tendenza che ha aperto e sta accompagnando il ritorno deidoppia A”, produzioni sempre più popolari che riescono a trovare un equilibrio ludo-narrativo nelle loro dimensioni contenute, applicando le regole della cinematic adventure a fondamenta di gameplay tipiche dei primi anni 2000, creando interessanti ibridi, tra cui i già citati lavori di Fares ma anche Psychonauts 2, Kena: Bridge of Spirits, A Plague Tale, The Gunk e Stray, in quella che è una morbida transizione tridimensionale del genere. Questo a riprova del fatto che le idee di certi visionari, di chi cerca di scrivere nuovi linguaggi senza accontentarsi degli standard, non muoiono mai, cercando solo il momento giusto per portare il media all’evoluzione.

 

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