Appassionati di JRPG e non, lo avrete sicuramente notato, probabilmente ben prima che uscisse qualche giorno fa l’ottimo Sea of Stars: i team indipendenti occidentali, negli ultimi anni, hanno lanciato una sorta di scalata al gioco di ruolo a turni, con l’obiettivo di abbattere quella J che da sempre li caratterizza e issare una W, come western, rivoluzionando (e rivitalizzando) un genere che, più di tutti, vive di dogmi e tradizioni tramandate di generazione (videoludica) in generazione. E così, contemporaneamente a una sorta di rinascita del genere nella sua patria natale, trainata dalle major giapponesi come la solita Square-Enix, Atlus e Monolith Soft (sotto Nintendo), con opere come Dragon Quest XI, Final Fantasy VII Remake, Persona 5, la serie Xenoblade ma anche da SEGA, col suo Yakuza: Like a Dragon, in Europa e America gli sviluppatori più underground, cresciuti nel mito di Final Fantasy, Chrono Trigger ed Earthbound decidono di smontare, cambiare dei pezzi e rimontare i loro videogiochi preferiti, incontrando la crescente curiosità del pubblico.
È uno sguardo interessante quello con cui i team occidentali osservano il genere, uno sguardo critico e insieme innamorato, capace di rinnegare le lungaggini tipiche del genere, il grinding, i tempi morti, citando però con grande delicatezza momenti, scorci, sonorità, meccaniche, senza mai limitarsi a copiare e, anzi, spesso ibridando quella struttura a generi teoricamente estranei. Prendiamo il clamoroso Everhood, psichedelico e acidissimo RPG esistenzialista alla Earthbound, con i combattimenti trasformati in vere e proprie sequenze rhythm, sulle note di una colonna sonora pazzesca. Oppure Haven, seconda opera di The Game Baker, già autori di Furi, capaci di unire visual novel romantica, sci-fi, esplorazione di mondi alieni e combattimenti a turni in una sola, bizzarra e adorabile avventura. Un’atmosfera totalmente opposta rispetto a Darkest Dungeon, dungeon crawler roguelite che si affida alla struttura a turni per affrontare le mostruosità lovecraftiane che si annidano e proliferano tra i suoi labirinti, portando alla follia personaggi e giocatore. Ma, anche restando nel solco di un approccio più “classico”, si trovano dei titoli distintivi e di grande pregio. Uno dei casi videoludici dell’anno scorso fu Chained Echoes, sviluppato in solitaria dal dev tedesco Matthias Linda, capace di riproporre un JRPG 16-bit “puro” con tutta la quality of life che richiede un gioco moderno, anteponendo il gameplay alle statistiche e dando un ritmo serrato all’appassionante racconto, tra guerra e intrighi politici, interpretato da personaggi memorabili.
Io personalmente ritengo che diventi eccessivamente artificioso e la componente puzzle, nelle fasi avanzate, copre un po’ quella strategica, ma non si può negare che il combat system dell’opera sia uno dei più intriganti visti negli ultimi anni, con la necessità di gestire una sorta di barra della fatica per massimizzare danni inflitti e minimizzare quelli subiti, alternando i personaggi del party in battaglia, a seconda della situazione. Il recentissimo Sea of Stars di Sabotage Studio (già autori di The Messenger, neoclassico pubblicato da Devolver) trovo sia addirittura un perfezionamento di quel modo di reinterpretare il JRPG 16-bit. Proponendo un’esplorazione e un dungeon design ispirato a classici Game Boy Advance dei primi anni 2000 come Golden Sun e la serie Mario & Luigi, il gioco riesce ad essere ancora più fluido, dinamico e divertente, oltre che straordinariamente affascinante a livello audiovisivo. Dai tempi del super-cult Undertale, l’Earthbound degli anni ‘10 nato dalla mente di Toby Fox, il sottobosco indie ha capito che anche questo genere si poteva ribaltare, attualizzare, farne una versione street food, un’esplosione di gusto diretta, senza filtri, senza mise en place da ristoranti stellati, proponendosi sia a chi di JRPG ne ha giocati mille e voleva qualcosa di fresco, sia a chi se ne è tenuto sempre ben alla larga, dandogli un sapore più familiare e per questo esotico (come quel locale dove sono stato qualche anno fa, che fa “sushi umbro” ad Assisi). Fino a 10 anni fa ben pochi ci provavano e ancora meno ci riuscivano, a confrontarsi con successo col genere, a queste latitudini; ora è cambiato tutto. Per come la vedo io il livello dei classici 16-bit è stato già raggiunto.
Magari non abbiamo ancora un titolo rilevante a livello storico come un Final Fantasy VI o un Chrono Trigger ma, in cambio, abbiamo tante opere originali, uniche, che se fossero uscite all’epoca sarebbero state accolte tra squilli di trombe e recensioni entusiastiche. Perché le idee, e che idee, ci sono e sono già state capaci di far tornare il JRPG (e il WRPG) protagonista del mercato, su due livelli diversi (quello mainstream e quello della pur consistente nicchia indie) ma con risultati paragonabili (le 250.000 copie e rotte vendute di Sea of Stars in due settimane parlano chiaro). Un ritorno talmente improvviso da far dubitare che la strategia di Square-Enix per rivitalizzare Final Fantasy (oltre i remake del settimo capitolo) fosse realmente necessaria, con un XVI che abbandona quasi totalmente i tratti del JRPG (andando molto più in là del semplice svecchiare e ibridare) per abbracciare una svolta action controversa che, a livello finanziario, non ha (per lo meno ancora) raggiunto i risultati sperati dal colosso nipponico. Nessuno saprà mai se con un’altra struttura il titolo sarebbe stato un grandioso successo, ma viene certamente da porsi la domanda, visti i numeri altissimi che ha fatto, ad esempio, Persona 5 in occidente, opera teoricamente molto meno digeribile.
E allora godiamoci la rinascita dell’ennesimo genere che davamo per morto (come già successo coi punta-e-clicca qualche anno fa), con i nuovi talenti del videogioco a portare avanti la loro battaglia iconoclasta, frantumando le pareti del genere, e i grandi player che osservano, prendono nota e sistemano le meccaniche delle loro grandi IP, nella speranza che si avventurino anche nel lancio di nuove serie e universi ludonarrativi (occhi puntati su Metaphor: ReFantazio di Atlus). Non è ancora il ritorno conclamato degli anni ’90, ma ci siamo meravigliosamente vicini.