Westworld e il dilemma del game designer

Westworld rinnovato terza stagione

Ho questa strana abitudine di perdermi i pezzi di libri, serie TV e giochi proprio sul più bello. Mi prendo bene, poi per motivi vari (dal lavoro al tempo che magicamente scompare in un buco nero, o perché arriva qualcosa di nuovo da fare), mi fermo quando magari manca poco per arrivare alla fine. Quando ci ritorno su dopo un po’ di tempo, decido di cominciare tutto da capo o di “rivedere” alcune cose, quando possibile. Sì, così sostanzialmente impiego due volte tanto a finire le cose, ma che ci volete fare… succede.

Questa volta è stato il turno di Westworld, che è pure una delle cose più fighe del mondo e che mi aveva preso benissimo sin da subito. Anche in quel caso però, nonostante la dipendenza totale delle prime puntate, ho finito per fermarmi praticamente sul più bello. Ho deciso di riguardarlo in questi giorni con più calma, dall’inizio, per gustarmi tutte le sfumature della serie TV di Jonathan Nolan e Lisa Joy. Ecco, non sono il primo a scrivere queste cose, e sicuramente si tratta di un argomento già ampiamente discusso, eppure, riguardando in questi giorni le prime puntate dello show HBO, mi è venuto in mente quanto sia attuale lo scontro tra la visione di Robert Ford (Anthony Hopkins) e Lee Sizemore (Simon Quarterman) in termini di “game design”. Per chi non avesse ancora visto Westworld, oltre a riassumere la faccenda, aggiungo anche che se amate i videogiochi (e a occhio, se state qui, dovreste) fareste bene a recuperarla proprio per la sua natura metareferenziale sul mondo del design open world. Sì, perché in sostanza Westworld è il racconto del più grande e utopistico open world mai realizzato: un parco giochi popolato da androidi e creato per consentire ai visitatori un’esperienza a tema western realistica e totalmente libera, senza ripercussioni legali e morali. Al suo interno ci sono trame principali e sotto trame, e chiunque è libero di fare sostanzialmente ciò che vuole. Westworld, però, è soprattutto il racconto del dietro le quinte, del “game design” alla base del parco e, ovviamente, un’interessante riflessione sulla natura degli androidi.

Quello che però interessa a noi oggi è proprio il dilemma del game designer che emerge sin da subito all’interno della serie, nello scontro tra i due personaggi di cui sopra: Ford è il genio solitario che ha inventato il parco e insegue la sua visione autoriale, mentre Sizemore è il direttore narrativo, lo sceneggiatore capo sospeso tra aziendalismo e voglia di lasciare il segno con qualcosa di spettacolare. C’è un dialogo/scontro, tra i due, nel secondo episodio, che fa emergere, a mio avviso, il momento critico che stiamo vivendo sul rapporto tra narrazione, ambientazione e gameplay. Sizemore presenta al consiglio direttivo e a Ford la nuova linea narrativa, “Odyssey on Red River”, una quest in grado di offrire sostanzialmente la più totale soddisfazione di ogni mania narcisistica dei visitatori. Una sorta di luna park del luna park, in cui gli attanti del racconto sono al servizio dell’ego di chi intraprende la quest. Dal canto suo, Ford boccia la linea narrativa con un discorso brillante, dicendo : “Non si dà agli ospiti quello che lei crede che vogliano, è semplice. Titillazione, horror, euforia, le politiche. Gli ospiti non tornano per le cose ovvie che facciamo, per le cose vistose; loro tornano per le sottigliezze, per i dettagli. Tornano perché hanno scoperto qualcosa che credono che nessuno abbia mai notato prima; qualcosa di cui si sono innamorati. Non cercano una storia che dica loro chi sono; loro lo sanno già, chi sono. Sono qui per sapere chi potrebbero essere”.

Lo scontro tra la visione di Ford e Sizemore è una perfetta fotografia del mercato videoludico e della sua utenza

Ecco, si tratta di un turning point fondamentale per Westworld, ma non è delle teorie alla base della serie che voglio parlare, bensì del fatto che questo dialogo fotografa chiaramente il punto di rottura del game design moderno, una battaglia si sta combattendo oggi. Come avviene in ogni momento critico (sebbene rappresentato da due assoluti), in realtà la situazione è chiaramente più fluida e le due correnti di game design si intrecciano e si toccano in più di un punto. Da un lato, quello di Sizemore, abbiamo le produzioni tripla A più classiche, in un certo senso retrograde da un punto di vista concettuale, ma assolutamente incredibili nel portare all’estremo il modello del theme park design e di un divertimento totalmente deresponsabilizzante, ma incredibilmente efficace. Dall’altra abbiamo una strada diversa, più sottile, che propone sostanzialmente qualcosa di simile, ma con un twist che riporta tutto all’imprevedibilità dell’esperienza, alla meraviglia della scoperta.

In questo momento storico siamo sospesi tra questi due modelli, e se andiamo a leggere le polemiche di questi giorni sui giochi di questo periodo, o anche sui titoli degli ultimi mesi, è facilissimo riportare molte di queste osservazioni all’interno di questa stessa dialettica. Lungi da me fare i nomi e giocare al sin troppo semplice gioco dei buoni e i cattivi: l’idea di questa riflessione non vuole essere sposare una linea piuttosto che un’altra e demarcare il giusto dallo sbagliato, perché è chiaro che la visione di Ford sia la più affascinante da sposare e la più mirabile da seguire. Il punto, secondo me, è che la fotografia del conflitto Ford/Sizemore è anche un’importante immagine emblematica del mercato, non solo tratteggiante lo scontro tra titoli d’autore e produzioni tripla A massificate, ma anche l’utenza: come i visitatori di Westworld, non tutti i giocatori vogliono la responsabilità, non tutti sono consapevoli fino e in fondo di chi sono, e non tutti cercano in un videogioco una traccia verso un altro da sé. A questo punto, il ruolo dei game designer, qual è? Sposare la linea Ford (come Kojima, per sua stessa ammissione) e condurli per mano in un luogo dell’animo che non conoscono ancora, o accontentarli nella loro visione deresponsabilizzata dell’intrattenimento? La risposta non è banale, ed è probabilmente il presente e il futuro del nostro medium.

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