Fine Gaming – Guida all’alta cucina videoludica

Facce da TGM – L’Opinione è lo spazio dedicato alle “columns” di The Games Machine: articoli e visioni su argomenti caldi o fortemente dibattuti che animano le discussioni, anche molto dure, all’interno della redazione di TGM, talvolta con posizioni – davvero o solo in apparenza – antitetiche. L’obiettivo è dar voce ai nostri redattori come specchio del quadro complesso e articolato, talvolta persino controverso, che circonda il mondo dei videogiochi, all’interno di confini dettati da etica e buon gusto ma senza depotenziare il messaggio e, così, la ricerca di confronto su temi sensibili e delicati. Buona lettura!

Questo 2025 non è nemmeno arrivato al giro di boa, ma è già destinato a rimanere negli annali della storia del gaming grazie a uscite di notevole qualità: Doom: The Dark Ages, Split Fiction e Clair Obscur: Expedition 33 solo per citarne alcuni, più l’imminente arrivo della Nintendo Switch 2 e la presentazione delle NVIDIA GeForce RTX Serie 50. Corriamo per le strade e mettiamoci a ballare dunque, come cantava Riccardo Cocciante. Qualcuno però nota anche qualche nuvola all’orizzonte: una certa tendenza ad aumentare i prezzi di videogame – ad esempio Mario Kart World a 89.99 – e hardware non proprio di ultimo grido, come le console Xbox e PS5.

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La nostra passione sta dunque diventando un lusso per pochi eletti? O semplicemente dovremmo cominciare a guardarla con altri occhi? D’altronde, se ci nutriamo di videogame, perché non trattarli come cibo? Ci sono piatti di pasta al pomodoro venduti a cinquanta euro in ristoranti stellati e nessuno chiama la Guardia di Finanza. Anzi, i clienti pubblicano fieri i loro selfie sui social. Guarda mamma, sto pagando una fortuna un piatto che nonna preparava in emergenza quando si trovava con il frigorifero vuoto. Cosa sta succedendo?

TU CHIAMALE SE VUOI EMOZIONI

Nel documentario Chef’s Table di Netflix, Massimo Bottura, patron del pluristellato ristorante Osteria Francescana, paragona la sua cucina – menù degustazione a 350 euro – a un’opera d’arte multisensoriale. E Flavio Briatore, in un’intervista a Repubblica, giustifica i diciassette euro per una Margherita al Crazy Pizza con lo stesso concetto: “non è una pizza, è un’esperienza”. Cracco, da parte sua, fu ancora più diretto in un servizio delle Iene affermando che i poveri hanno altri problemi che andare a mangiare al suo ristorante. Frase dall’eleganza opinabile, ma che dal punto di vista di alcuni privilegiati – o appassionati sinceri, con un lavoro normale – centra il bersaglio ed è facilmente traslabile su una Collector’s Edition da 249.99 euro con artbook, mappa in tessuto, colonna sonora su vinile e ciuffo di peli pubici del lead programmer. Il re è nudo?gaming Chi lo sa, ma se osassi dire che da Cuoco Figo ho mangiato pane e cipolla overpriced, verrei tacciato di essere un buzzurro che non capisce come la pietanza in questione sia stata smembrata, riassemblata, impiattata su ceramica artigianale e magari nebulizzata con un’essenza di infanzia contadina.

Mario Kart non lo finisci: lo tramandi, lo reinventi, lo riscopri a ogni guscio blu

E a quel punto, per non sembrare un bifolco, non mi resterebbe che sorridere, fotografare, postare e strisciare la carta. Dunque perché è accettabile pagare un’esperienza di novanta minuti a base di chewing gum al tartufo condito da storytelling gastronomico, mentre dovremmo storcere il naso davanti a Mario Kart World a 89.99? Dopotutto, anche lanciarsi banane in faccia a 200 all’ora su un circuito arcobaleno è, a modo suo, un’esperienza multisensoriale. Con un piccolo dettaglio: non dura una serata, bensì settimane, mesi, anche anni. Perché Mario Kart non lo finisci: lo tramandi, lo reinventi, lo giochi online contro sconosciuti e lo riprendi sul divano con gli amici a Natale. E quando pensi di averne abbastanza, ti arriva addosso un guscio blu a ricordarti che lui è ancora lì che ti aspetta.

RISTORANTI STELLATI? PURE LE SOFTWARE HOUSE LO SONO

Non è una critica agli chef stellati, sia chiaro. È un elogio ai videogame stellati. Sappiamo tutti che una frittata servita da Cuoco Figo fornisce – a livello strettamente nutrizionale – lo stesso apporto della frittata consumata alle tre di notte al Camioncino Schifoso, consegnataci in un foglio d’alluminio unto da un “cuoco” che mentre la cucinava si grattava con convinzione le sudaticce part intime, parlando al telefono con un tono che suggeriva discussioni familiari non ancora risolte.

Se un piatto al pomodoro può costare 50€, perché un videogioco non può valerne 90 o più?

Eppure, l’esperienza è ben diversa. Nel primo caso siamo seduti in un ambiente elegante, con luci soffuse e posate che valgono più del motorino del cuoco del camioncino. Ogni gesto è calibrato, ogni ingrediente ha una storia, ogni boccone è pensato per lasciarci qualcosa. Nel secondo, stiamo probabilmente mangiando su un marciapiede, accanto a un tombino fumante, osservando con una certa ansia i brutti ceffi che paiono interessati al nostro smartphone. Dunque, se Osteria Francescana ha tre stelle Michelin, perché Rockstar Games non potrebbe averle?gaming Entrambe le realtà danzano sul filo dell’eccellenza. Siamo in grado di cogliere le differenze tra GTA VI e il Solitario di Windows? Non vale rispondere “a Solitario di Windows posso giocarci oggi“.

E GLI INDIE?

Naturalmente, non serve un budget da superproduzione o un menù da nove portate per lasciare il segno. Non tutti i videogame devono uscire dalla cucina sperimentale di un AAA con seicento sviluppatori e un team marketing da Superbowl. Alcuni piatti, quelli che ti restano nel cuore, li cucina la nonna. Celeste è quel pasticcio di lasagne fatto con amore, nel quale ogni strato è un salto calibrato.

Celeste è come le lasagne della nonna: semplice, gustoso, cucinato con amore

Undertale è la zuppa strana che all’inizio guardi con sospetto, ma che al primo cucchiaio ti racconta una storia che non dimentichi più. Papers, Please è una cena in silenzio con pochi ingredienti, ma che ti fa uscire con il peso dell’intero sistema addosso. Slay the Spire è uno di quei piatti che sembrano semplici – pasta e fagioli – fino a quando scopri che lo chef ha bilanciato ogni singolo legume con la precisione di un orologiaio svizzero. Perché nel fine gaming, come in cucina, non conta quanto spendi per gli ingredienti. Conta quello che ci metti dentro. E certe volte, un padellino su un fornello sgangherato sa dare più emozioni di una cucina stellata piena di ego e azoto liquido. A me piace mangiare costine di maiale più unte delle mutande di Trevor Philips, ma a volte rompo volentieri il porcellino per qualcosa di più sofisticato. Anche sottraendo risorse economiche ad altre attività, se necessario.

ALLA LUNGA RISPARMIAMO PURE

Chi si lamenta del prezzo dei videogame è spesso lo stesso che spende i ventinove euro di Hades II in una maglietta con scritto “Los Pollos Hermanos” che finirà in fondo al cassetto dopo tre lavaggi. E guai a fargli notare che Elden Ring gli è costato meno di un abbonamento alla palestra che non ha mai frequentato. E se proprio vogliamo fare i conti, i videogame fanno pure risparmiare.

Elden Ring costa meno di una felpa motivazionale. Ma ti cambia molto di più

Quelle ottanta ore passate su Red Dead Redemption 2, a cavalcare per lande sconfinate baciati dal sole del tramonto, sono ottanta ore in cui non siamo usciti con gli amici a buttare soldi al pub, non abbiamo ordinato cocktail dai nomi astrusi a quattordici euro l’uno, né mangiato kebab alle due di notte ruttando cipolla per una settimana. Abbiamo invece goduto di una terapia immersiva a base di lezioni di geografia, studi sociologici sull’America del tardo Ottocento e una storia d’amicizia e tradimento meglio scritta di molti romanzi contemporanei. Il tutto nella comodità di casa, senza dover prendere la metro o affrontare la pioggia. Ci abbiamo guadagnato in salute, conto in banca e crescita interiore. Altro che hobby costoso: il videogioco, se ben scelto, è un investimento a lungo termine.

E ADESSO, DOOM: THE DARK AGES

E ora che da redattore di una testata di videogame sono diventato un critico di fine gaming, ecco la mia persona recensione di Doom: The Dark Ages. Lo chef id Software rielabora la tradizione medievale con influenze heavy metal, aggiungendo a ogni morso una speziatura industriale che richiama l’acciaio rovente e il sangue coagulato sul marmo.

Doom: The Dark Ages è uno stufato di brutalità servito con salsa al metallo fuso

La base è solida: uno stufato di brutalità cotto a fuoco altissimo, che lascia in bocca un’esplosione violenta, che stordisce senza tuttavia disorientare. Si percepisce un retrogusto sorprendentemente raffinato: note di controllo perfetto, level design millimetrico e ritmo coreografico, come una danza tribale eseguita con scudi rotanti. Marcata l’influenza dei piatti storici – Doom 2016, Doom Eternal – ma qui c’è qualcosa di più rustico, più carnale, più primordiale. Un piatto per palati che non temono l’adrenalina né il rischio di ustione da combo, ideale abbinato a un vinile dei Meshuggah del ‘91 da ascoltare in una stanza buia con casse 7.1. Visto che roba?

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