Per me, e per molti che l’hanno amato e stanno amando il secondo capitolo, il vero fascino di Death Stranding, a parte un world building clamoroso e le mattate di Kojima, sta nella sua proposta di gioco. Una specifica e fondamentale caratteristica di gameplay: consegnare i pacchi.
Spolpata all’osso, l’opera del designer giapponese, è un infinito vagare tra avamposti a consegnare beni materiali a persone in difficoltà. È un impegno in cui è facile rimanere coinvolti e prevede che il giocatore si prodighi a custodire e proteggere il carico durante il tragitto, nonostante i mille pericoli a cui andrà incontro. La vita del fattorino è piena di imprevisti, sbattimenti, imprecazioni, ma è anche una vita evidentemente affascinante, in cui ci si fa carico di un pezzettino di felicità altrui. Un senso di responsabilità simulato che diventa carburante per la progressione. Anche questo interpretare Sam Porter Bridges è così magnetico ed immersivo.
Il lavoro al centro del gioco
Basta togliere la fatica fisica e la necessità economica di doverlo fare per 8+ ore al giorno e quasi ogni lavoro può diventare un’idea di game design vincente
Più in generale, ed è una tendenza che continua a crescere negli ultimi anni, al pubblico piace “giocare a lavorare”. Death Stranding è sicuramente l’opera che interpreta questa tendenza in modo più autoriale, ma là fuori è pieno di Mudrunner, Powerwash Simulator, Cooking Simulator e House Flipper vari. Basta togliere la fatica fisica e la necessità economica di doverlo fare per 8+ ore al giorno e quasi ogni lavoro può diventare un’idea di game design vincente. Il concetto di consegna e trasporto, per esempio, si sposa in modo perfetto al contesto ludico: portare un oggetto a destinazione è un po’ come portare l’Anello al monte Fato, se la si vuole vedere in modo più romantico del necessario. È un’avventura, un percorso. Death Stranding riesce a dare un contesto efficace ed illusorio a questa attività, rendendo tangibile l’impegno, la fatica, la sensazione di aver portato a termine un’impresa e, perché no, di essere stati usati dal sistema, mentalmente sfiancati e alienati, sopportando condizioni climatiche estreme, orrori sovrannaturali e un’umanità violentissima. Poi si arriva nella propria stanza e ci si concede finalmente una doccia calda, due chiacchiere, una scrollata tra i menù, dimenticandosi per qualche minuto di tutto lo stress accumulato.
In questo senso è un’opera che scandisce benissimo i ritmi lavorativi e le sue contrastanti sensazioni, adattandoli ovviamente a quelli videoludici e favorendo l’immersione. I due capitoli funzionano alla grande come pura esperienza di gameplay a metà tra l’avventura, il gestionale e il puzzle game. Le caratteristiche lavorative salienti che Kojima Productions è riuscita a tramutare in gameplay sono la responsabilità, sotto forma del nostro carico e delle sue condizioni, con valutazione finale da parte del cliente annessa, a certificare quanto bene (o male) abbiamo fatto il nostro lavoro; l’efficienza, laddove il percorso va prima studiato e programmato, a volte imponendo anche limiti di tempo alla missione, scegliendo l’equipaggiamento adatto e preparandosi ai frequenti imprevisti; il senso di ricompensa, non monetario, in questo caso, ma sotto forma di crescita del nostro alter ego, che vedrà migliorare le proprie caratteristiche in base al proprio (nostro) stile di lavoro, e di equipaggiamento fornito per rendere meno sfiancanti le traversate; la collaborazione, col Social Strand System che connette tutti gli altri utenti, condividendone costruzioni, indicazioni, supporto, dando sempre la sensazione di non essere soli anche quando non si vede anima viva all’orizzonte, tutti impegnati per lo stesso obiettivo.
Sam Porter Bridges è un instancabile corriere, costretto in un loop che lo priva di qualsiasi prospettiva extra-lavorativa
C’è spazio, però, anche per un certo senso di frustrazione, espresso sia dallo stesso protagonista, solito a ripetersi tanto frasi di incoraggiamento quanto sfoghi sinceri e rabbiosi, sia da certe missioni che restringono tantissimo il raggio d’azione e aumentano la pressione, o da una sensazione di ripetizione costante. Siamo strumenti, burattini manovrati da chi vuole raggiungere obiettivi sempre più grandi, spesso al limite della megalomania. I bisogni altrui che diventano la nostra sofferenza, come chi è costretto a lavorare ad oltranza per rispettare gli orari delle consegne o per non far raffreddare la cena che abbiamo ordinato, costantemente valutati e svalutati, mettendo a repentaglio anche la propria salute per guadagnare due soldi. Death Stranding riesce a far riflettere sulle storture del mondo del lavoro, in modo elegante ma inequivocabile, su quanto certe professioni siano diventate fondamentali per l’umanità senza che queste vengano però nobilitate, adeguatamente remunerate, spesso gestite da chi se ne frega dei diritti dei lavoratori. Sam Porter Bridges è un instancabile corriere, costretto in un loop che lo priva di qualsiasi prospettiva extra-lavorativa, non riuscendo a sfuggire alla sua professione neanche dopo essere scappato con Lou alla fine del primo capitolo. Il suo stesso nome lo identifica col suo mestiere, con la sua condanna, un purgatorio tra il mondo dei vivi e la Spiaggia dei morti, dove la classe operaia non sembra destinata al paradiso.
Sempre reperibile, H24, le manette al polso come simbolo di un lavoro-prigione mascherato da impresa eroica che solo lui può portare a termine, mentre l’anello del secondo capitolo lo “sposa” alla Drawbridge, senza potersi neanche affidare alla formula “finché morte non ci separi”, data la sua natura di Riemerso. Viaggi agrodolci, tra il piacere di un gameplay sicuramente particolare, non adatto a tutti ma rifinito, fisico, ingegnoso e la presa di coscienza verso un’allegoria lavorativa a metà tra l’esaltazione della persona comune, l’eroe del popolo, e il dipendente sfruttato, alienato, l’individuo che evapora davanti al dovere, diventando macchina, numeri. È anche questo che rende così interessante e sfaccettata la fantasia di Hideo Kojima, talvolta molto didascalica ma anche molto umana, quotidiana, riflessiva.