Benvenuti nuovamente a bordo dello speciale “L’ho fatto io!” dedicato a tutti i gamer che han sognato di sviluppare il proprio videogioco. Nelle puntate precedenti abbiamo esplorato il mondo dei level editor degli 8 bit, che abbracciava un po’ tutti i generi che spopolavano in quegli anni, dal platformer al racing game.
Come accennato nel finale della seconda parte, la semplice creazione di un livello pareva non bastare più a soddisfare la creatività dei videogiocatori e si studiarono quindi soluzioni per permettere di realizzare interi videogame senza alcuna conoscenza di programmazione, dando alla luce, se all’epoca fosse esistito Twitter, quell’hashtag #nocode oggetto di tante accese discussioni nell’ambito del software development.
Chi realizza un gioco senza scrivere una sola linea di codice, può essere definito game developer? È più degno di lode un Tic Tac Toe scritto in assembly o un arcade creato con un tool nocode? Ma soprattutto: cosa importa a noi giocatori sapere come è stato realizzato un videogame, fintanto che è divertente? Esatto, zero assoluto, quindi lasciamo le battaglie all’ultimo script nei thread tossici e concentriamoci su ciò che veramente ci interessa.
Il genere adventure, testuale o grafico, fu letteralmente inondato da software per lo sviluppo nocode, principalmente per due motivi: innanzitutto i giochi di questo tipo non spremono l’hardware su cui girano, essendo composti per la maggior parte da testo e immagini poco animate, e quindi non necessitano di grande ottimizzazione del codice finale, vero tallone d’achille degli editor che ovviamente non possono prevedere tweak e workaround ad hoc. Inoltre, per quanto due avventure possano differire tra loro per ambientazione, complessità e livello di interazione, il concetto alla base è sempre lo stesso: a un comando del giocatore, non importa se impartito da parser o interfaccia grafica, corrisponde una risposta del gioco, in una sorta di schema di azione e reazione. Dunque non si sarebbe trattato di consentire ai gamer di “realizzare un videogioco” bensì di “realizzare un certo tipo di videogioco”. La differenza è abissale. Due giochi come King’s Quest e Maniac Mansion, indiscussi capolavori della loro epoca, sono molto più simili tra loro di quanto non possano esserlo un qualsiasi platformer e uno shoot ‘em up, per quanto semplici li possiamo scegliere.
Tra le prime software house a lanciarsi, per restare in tema, in questa avventura, spicca Electronic Arts con Adventure Construction Set per C64 nel 1984, convertito poi per Apple II, Amiga e sistemi MS-DOS negli anni successivi. Era un prodotto estremamente complesso per l’epoca, in grado di realizzare avventure grafiche tile-based, ovvero consentendo al giocatore di muoversi lungo un ambiente composto da caselline e inquadrato dall’alto, come i primi capitoli della serie Ultima. Combattimenti corpo a corpo o a distanza, incantesimi e shop erano solo alcuni degli elementi personalizzabili, e per i più pigri c’era anche un comodo wizard che costruiva da zero un’avventura a partire da una serie di parametri personalizzabili dall’utente, tra i quali non poteva mancare il livello di difficoltà. Da segnalare anche l’eccellente supporto di EA alla community, con un contest per il miglior gioco creato con Adventure Construction Set che vide la bellezza di una cinquantina di entry, più di tante game jam odierne pubblicizzate con condivisioni su tutti i social.
Dello stesso anno è Adventure Game Interpreter, tool realizzato da Sierra per lo sviluppo delle sue stesse avventure, a partire da King’s Quest e proseguendo con le serie di Space Quest e Manhunter. Si trattava di uno strumento realizzato da professionisti per professionisti, dotato di un mini-linguaggio di programmazione interno e quindi nato con uno scopo diverso rispetto al cugino di Electronic Arts, ma è interessante notare come anche i developer stessi ricorressero a editor e software per allontanarsi dalla pura programmazione in assembly e dedicarsi esclusivamente a ciò che sapevano e amavano fare: creare videogiochi. E se pensate che Ken e Roberta Williams, i fondatori di Sierra, fossero dei geni visionari, sappiate che Infocom già nel 1979 aveva creato la Z-machine, virtual machine che diede alla luce il celeberrimo Zork.
A differenza di un editor, una virtual machine è una specie di computer immaginario capace di funzionare all’interno di un computer reale. Scopo di ciò? Realizzare una sola volta la virtual machine per ogni macchina fisica, e sviluppare i videogiochi per questo sistema virtuale.
Immaginate che io voglia produrre dieci videogame per PC, macOS, PS5 e Switch. Date le differenze hardware, dovrei dedicarmi alla scrittura di ben 40 distinti software. Oppure creare la Feronato Virtual Machine per i sistemi di cui sopra, e realizzare i miei titoli per FVM, per un totale di soli 14 software: quattro sistemi più dieci giochi. Un bel risparmio di tempo e risorse, non trovate? In realtà ho semplificato abbastanza la situazione, ciò non toglie che Infocom fu pioniere della mentalità cross platform che oggi è imprescindibile. E se finora abbiamo parlato di strumenti destinati esclusivamente agli appassionati e altri pensati solo per i professionisti, esiste un editor in grado di mettere tutti d’accordo: The Quill, nato alla fine del 1983 per ZX Spectrum e successivamente convertito per tutti i sistemi in voga all’epoca, dal C64 all’Amstrad CPC passando per BBC Micro, Apple II e altri. Ideato per il grande pubblico, finì per essere utilizzato anche dalle software house e si stima siano stati realizzati più di 400 giochi commerciali con il lavoro Gilsoft, che nel 1987 rilasciò il sequel spirituale Professional Adventure Writer, tool molto più sofisticato che svincolava il parser dall’utilizzo di sole due parole per volta, come ad esempio “go north” o “use knife” in favore di frasi più complesse.
A dimostrazione di quanto validi fossero The Quill e Professional Adventure Writer, nel 1988 venne alla luce una versione ancora più avanzata realizzata esclusivamente per Aventuras AD, una software house spagnola specializzata nella creazione di adventure. Chiamato DAAD, cadde nel dimenticatoio con il declino delle macchine 8bit, per poi venir recuperato nel 2018, e oggi è molto apprezzato nel mondo della retro programmazione, con developer che continuano a utilizzarlo per dar vita a nuove creazioni. Non ha avuto la stessa sorte Adventure Master, distribuito da CBS Software in 1984, in quanto non si hanno notizie di giochi di successo sviluppati con questo sistema. Peccato, poiché aveva un sistema di design della mappa interessante, con la possibilità di teletrasportarsi da una stanza all’altra con un comando speciale, un po’ come nei giochi moderni quando possiamo richiamare la mappa e spostarci velocemente da un luogo di interesse già visitato all’altro. La stampa ovviamente seguiva questo fenomeno con crescente interesse, tanto che nello Zzap! di settembre 1986 fu assegnata una medaglia d’oro a Graphic Adventure Creator, di Incentive Software, che vantava un ottimo parsing degli input testuali nonché un editor grafico incluso, caratteristica da non sottovalutare dato che The Quill per aggiungere immagini ai testi doveva far ricorso a un add-on chiamato The Illustrator. E se state pensando che mi sia dimenticato dell’editor più amato dagli avventurieri, vi sbagliate: stavo solo seguendo una sorta di cronologia che mi avrebbe inesorabilmente portato a parlarvi dello SCUMM di Lucasfilm Games, regina indiscussa degli adventure.
Utilizzato come tool interno per velocizzare lo sviluppo di Maniac Mansion, ha permesso anche la creazione, tra gli altri, di Zak McKracken and the Alien Mindbenders, The Curse of Monkey Island e sequel, Day of the Tentacle e le due avventure di Indiana Jones.
Per la realizzazione di Full Throttle, dal taglio più cinematografico, fu unito a un altro tool di Lucasfilm Games utilizzato per comprimere video: INSANE, già apprezzato anche se in versioni meno performanti con Star Wars: Rebel Assault e relativo seguito. SCUMM era così valido che venne utilizzato dal 1987 fino al 1998, quando la release di Grim Fandango con il suo ambiente 3D rese necessario l’utilizzo di un nuovo software chiamato GrimE, che in seguito ci regalò Escape from Monkey Island.
E oggi cosa offre il mercato a chi volesse creare il proprio adventure? Le proposte non mancano, anche se molte non reggono in confronto alle perle del passato, in proporzione alla maturità hardware raggiunta dalle macchine odierne. Ci sono però un paio di soluzioni che voglio proprio mostrarvi. La prima è Adventure Creator, game toolkit per il celeberrimo Unity che consente di creare adventure in 2D, 2.5D e 3D con la possibilità – indispensabile oggigiorno – di gestire i savegame. Si può creare il proprio videogame anche senza scrivere una sola riga di codice, anche se ovviamente per spremerlo al meglio bisogna ticchettare un pochino sulla tastiera. Potete provare Unity gratis, ma il toolkit è commerciale e va acquistato. Vi propongo quindi anche una soluzione assolutamente free e browser based: Adventuron, protagonista di molte release su itch.io, che con un piccolo pseudolinguaggio di programmazione consente di creare adventure capaci di restituire lo stesso feeling che provavamo quando caricavamo interminabili nastri su C64 o Spectrum. Ma non di soli adventure vive l’uomo, molti altri generi sono stati abbracciati dai tool per lo sviluppo di videogiochi, come ad esempio gli shoot’em up. Di questo, però, parleremo nella prossima puntata.