Il sole si è già nascosto dietro l’orizzonte, oltre i colli, l’aria comincia a rinfrescarsi ma l’umidità, salita dai campi coltivati che abbracciano l’Interstate 65 corre incontro a Conway per abbracciarlo, come un vecchio amico, appena mette piede fuori dal suo furgone. L’ultimo rifornimento prima della notte, il cavallo simbolo della Equus Oils che si staglia nel cielo di fine giornata, imponente, come la sensazione che neanche l’oscurità farà luce su quel 5 di Dogwood Drive che, maledizione, proprio non vuole farsi trovare. Perché l’ultima consegna deve essere così difficile? Cancellato dalle mappe, svanito, evaporato come il fondo di una bottiglia di Whiskey lasciata al sole. “Scusi, saprebbe dirmi dove trovare questo indirizzo?”. Sembrava quasi sapere che mi sarei cacciato in un ginepraio seguendo le sue indicazioni, quel vecchio enigmatico e che se la rideva sotto i baffi. Una tale Marquez che abita in cima a una collina, a sinistra dopo un albero che brucia. Mah, seriamente? E poi quella Route Zero, mai sentita, l’avranno appena inaugurata…
Un inizio indimenticabile per un viaggio lungo 7 anni, dal 2013 al 2020, nel cuore di un’America nascosta, risvegliata dal suo sogno e catapultata in un’illusione, raccontata attraverso la lente surreale con cui Cardboard Computer ha osservato il paese dal post-crisi del 2008 al tramonto della presidenza Trump. Kentucky Route Zero, uno dei più grandi pezzi di narrativa statunitense dell’ultimo decennio.
LA LUNGA STORIA DI KENTUCKY ROUTE ZERO
Oggi i 5 atti e 4 intermezzi che compongono l’epopea pubblicata da Annapurna sono disponibili in un comodo e ben confezionato pacchetto (la TV Edition, per celebrare l’arrivo della saga su praticamente tutte le piattaforme), ma nel 2013, quando uscì il primo episodio, tutti quelli che ebbero la lungimiranza di acquistarlo su Steam capirono immediatamente di trovarsi davanti ad un potenziale caso videoludico, con annesso hype e atavico ottimismo sulle tempistiche che avrebbero portato al gran finale. Jake Elliott (scrittore/programmatore), Tamas Kemenczy (art director/programmatore) e Ben Babbitt (compositore) si erano fatti la loro ottima tabella di marcia: “Ne facciamo uscire uno ogni 3 mesi, belli come il sole”. Era il periodo in cui il neo-punta-e-clicca voleva emulare le serie TV, prendendone in prestito il modello produttivo (e spesso chiedendo le relative licenze ai serial del momento) per dilatare l’interesse e proporre al pubblico un nuovo modo di vivere il videogioco, adatto alla distribuzione only digital. Telltale ci ha campato finché ha potuto e il loro The Walking Dead fu qualcosa di clamoroso e irripetibile, coincidendo con l’inizio di una discesa che portò la compagnia gambe all’aria nel 2018, a causa di uno sviluppo diventato sempre meno sostenibile e del flop al botteghino di alcuni titoli. Don’t Nod (il nuovo nome dello studio francese con apostrofi e spazi) invece ci campa ancora alla grande, grazie al successo di Life is Strange e di un business model più fluido e totalmente slegato dall’acquisizione di licenze.
Ma torniamo al nostro trio, ricco di talento quanto poco consapevole dei tempi tecnici di sviluppo, tanto che successivamente racconteranno di quanto fosse stato un incubo sviluppare e lanciare il secondo atto della loro opera appena 4 mesi dopo la prima uscita. “Così non ce la possiamo fare, siamo indie, facciamo gli indie”. E così i tempi di fecero sempre più diluiti, quattro mesi diventarono un anno per arrivare al terzo, due anni per arrivare al quarto, quattro anni per arrivare al quinto (celebrato con la TV Edition di cui sopra). Tutto ciò avvolto da un alone di meta-mistero che era un misto tra la loro stessa incertezza sui tempi di sviluppo, con pochissime notizie a corredo, e le suggestioni che ogni episodio lasciava dentro ai giocatori.
GUARDANDO INDIETRO È STATO PROPRIO QUESTO MODUS OPERANDI CHE HA PERMESSO A KENTUCKY ROUTE ZERO DI ESSERE UN’OPERA COSÌ STRAORDINARIA
E Kentucky Route Zero è un po’ così, un gruppo di “dimenticati” in viaggio verso una meta che forse neanche esiste, diventando metafora di chi vaga in eterno da una costa all’altra, americani senza patria, Sulla Strada come Kerouac. Conway, Shannon, Ezra, Junebug, Johnny, Lula… Autisti alcolizzati, cani anziani, bambini perduti, giovani che si arrangiano, artisti alla canna del gas, scienziati eremiti e burocrati tormentati alla scoperta di un mondo sotterraneo, nascosto agli occhi di chi non vuole vedere, masticato e sputato dal capitalismo, libero e povero, dove nuove comunità di reietti fondano il proprio futuro sulle macerie emotive di altre comunità, costrette ad abbandonare quelle terre prima di loro, diventando “un pueblo de nada” capace di fare proprio un nuovo habitat, impostando nuovi ritmi di vita. Emigrati ed emigranti, scarnificati dai debiti, licenziati e lasciati in mezzo a una strada, sempre meglio che morti sul lavoro in nome del nulla, sul fondo di miniere infami trasformate il sepolcri.
I PROTAGONISTI DI KENTUCKY ROUTE ZERO SONO I DIMENTICATI, EMIGRATI ED EMIGRANTI IN VIAGGIO SENZA UNA META, LE VITTIME DELLA CRISI DEL 2008
Un esempio lampante sono gli intermezzi, il primo in forma di mostra interattiva, il secondo una vera e propria pièce teatrale dove il giocatore è uno degli attori seduto al tavolo di un bar-scenografia (uno spaccato che anticipa certi eventi del gioco, rielaborati a posteriori da una delle protagoniste), il terzo una guida telefonica alle attrazioni del fiume Echo (pazzesco), l’ultimo invece all’interno degli studi in fermento della WEVP-TV, rete televisiva indipendente, autogestita dagli abitanti del mondo sotterraneo. Scene che creano contesto, rinforzando il world building e aggiungendo sfaccettature che aiutano a riflettere una luce abbagliante. Si arriva quindi a un atto finale straordinariamente sperimentale, carico di malinconia e speranza, lanciato in un 2020 che sappiamo benissimo cos’ha significato per tutti noi; un villaggio che si ripopola, chi arriva, chi parte nuovamente, il giocatore nei panni di un gatto che esplora l’area in cerchio, scandendo contemporaneamente il passare del tempo mentre si ascoltano i personaggi parlare, confidarsi, sperare, celebrando e concentrando poi le proprie emozioni in una canzone finale da brividi, cantata tutta a cappella, in coro, tutti uniti alla fine del proprio (e del nostro) viaggio.
IMPOSSIBILE SOTTOVALUTARE ANCHE L’APPORTO DEL COMPARTO MUSICALE, SPESSO SULLO SFONDO PER POI INTERVENIRE SEMPRE AL MOMENTO GIUSTO