Il videogioco è un’esperienza non replicabile – Speciale

Il videogioco è un’esperienza non replicabile – Speciale

La cosa che più mi affascina di questo medium è il fatto che l’interazione, il coinvolgimento fisico e mentale di chi decide di giocare un videogioco, cambia totalmente il modo di vivere l’opera. Se si può affermare che un film, lasciato in sottofondo mentre si cucina o si scrolla Instagram, vive per sé, si svolge comunque indipendentemente dall’attenzione dello spettatore, per il videogioco questa cosa è impossibile.

Ciò apre le porte anche ad un’altra questione però, ovvero il fatto che il modo di interagire varia da persona a persona, è un tratto unico e, di conseguenza, il videogioco, nei limiti del suo design, “subisce” i modi, i tempi e gli umori dei giocatori. Pensate a quanto varia l’esperienza tra chi gioca un RPG open world per finire la main quest, andando più dritto possibile, e chi si perde a esplorare città, parlare con gli NPC, accettare missioni secondarie che nascondono vere e proprie fette di racconto. Ma anche chi, una volta finito Super Mario Bros. Wonder, decide di puntare al 100%, perfezionando le proprie performance tentativo dopo tentativo e arrivando a padroneggiarne totalmente il gameplay. È sempre lo stesso gioco? Certo, eppure il diverso modo di interagirci ne cambia la percezione, il racconto, spesso il giudizio. Un videogioco può essere quindi inquadrato come un’opera statica o è il momento di valutarlo e viverlo come esperienza non replicabile e variabile?

A OGNUNO LA PROPRIA ESPERIENZA

Partendo dal presupposto che non c’è modo giusto o sbagliato di vivere un videogioco, analizziamo il primo esempio di cui sopra. Io, per mia indole, se ho a disposizione un mondo aperto da esplorare, mi lascio attrarre da qualsiasi cosa, non solo ludica ma anche architettonica o sensoriale. Del tipo “va come hanno modellato bene sto vaso”, ma anche ascoltare i pettegolezzi che si stanno scambiando due personaggi in strada, osservare una particolare texture sulla facciata di un palazzo, ammirare un’animazione particolarmente ben riuscita, cose così. Mentre solitamente il mio interesse per “buildare” il personaggio e portare al limite il combat system è sempre modesto, sicuramente sotto la media, limitandomi allo stretto necessario per evitare di soccombere davanti ai boss.

Mi piace un sacco fare il turista in questi contesti e ciò, probabilmente, come appassionato e critico, mi porterà a parlare di più del mondo di gioco, della sua mitologia, dell’atmosfera, e meno della profondità ruolistica o della reattività del sistema di controllo. Questo farà sì che io e un mio interlocutore, che adotta un approccio totalmente diverso, avremo a tutti gli effetti vissuto quell’esperienza in maniera opposta. Non sarà “il videogioco di Schrödinger” ma non ci andiamo neanche troppo lontano. Quante volte, durante infinite discussioni online, si vedono utenti accusarsi a vicenda di non aver giocato a dovere un determinato gioco, “eh ma se non hai fatto questa cosa non hai visto niente!” e cose del genere. La verità è che, per sua stessa natura, il videogioco è probabilmente l’esperienza mediale più personale che esista, dove gli sviluppatori concedono sempre uno spazio di manovra più o meno ampio a chi deciderà di entrarvi (a meno di titoli estremamente lineari come un Phoenix Wright, per dirne uno). È la fondamentale illusione di avere un certo grado di libertà, capace di far sentire il giocatore centrale, sotto i riflettori, anche in giochi più contenuti, appunto per esaltarne il ruolo e la necessità di interazione.

Questo fa sì che non esista uno “standard” che si possa analizzare oggettivamente nella sua interezza e, di conseguenza, non è possibile realizzare una run “perfetta” che abbia lo stesso valore di un dipinto finito, incorniciato e appeso ad una parete per non essere più toccato, solo contemplato. Possono esserci elementi indiscutibili; i controlli funzionano o meno, i dialoghi sono scritti bene o male, il lato tecnico è curato o ci sono rallentamenti e bug vari, tutto il resto dipende dall’approccio. Il giocatore è a tutti gli effetti elevato a parte integrante dell’opera, elemento fondamentale per il suo completamento artistico.

QUESTIONE DI UMORE

Diventandone quindi elemento fondamentale, il gioco “subirà” anche l’umore del giocatore, plasmandosi di conseguenza. Pensiamo alla VR e a un’esperienza come The Climb. Se soffro di vertigini la vivrò quasi con terrore, le mani bagnate di sudore pronte a levare il visore dalla faccia al primo sentore di panico, a differenza dell’esaltazione che proverò se la sensazione di vuoto mi genera adrenalina e piacere. Di conseguenza lo racconterò in modo totalmente diverso; entrambe impressioni valide, chiaramente, che descrivono benissimo un prodotto del genere. Questo è un caso estremamente definito, ma pensiamo a quanto diversa può essere un’esperienza videoludica in caso di stanchezza o di buon umore, con la mente sgombra o nuvolosa di preoccupazioni. Il videogioco si presta quasi sempre a una partita “tanto per”, ma certamente le sue qualità arriveranno appannate al giocatore che potrebbe, di conseguenza, sviluppare un giudizio negativo sul prodotto, annoiarsi, mollarlo a metà. Questo porta ad un altro fattore: l’hype. Il momento di massimo buzz collettivo, quello dove tutti ne parlano, non è per forza (per me non è quasi mai, per dire) il momento giusto per giocarlo.

Quello dell’attesa, del “capolavoro” che finalmente arriva nelle nostre case, del bombardamento social che fa da cassa di risonanza all’evento (e della FOMO conseguente), è un altro fattore umorale esterno che può certamente modificare la percezione del titolo. L’umana voglia di inserirsi nel discorso, dire la propria opinione, spiccare con la battuta o l’intuizione giusta è qualcosa che ormai fa parte del modo quotidiano di vivere i videogiochi (e non solo quelli, chiaro). C’è chi sarà portato ad analizzare ogni pixel pur di trovare un difetto che possa andare contro il sentimento di esaltazione generale, o farà la stessa cosa per fotografare qualsiasi dettaglio e glorificarne la bellezza ludoestetica. Proprio la virtual photography, negli ultimi anni, si è imposta come uno dei modi “alternativi” più diffusi e virtuosi per interagire con un videogioco, portando alla nascita di una nuova e artisticamente rilevante branca della fotografia (e di cui abbiamo già parlato in queste pagine). In ogni caso, non si troverà mai un parere neutro, pulito, totalmente obiettivo, neanche tra chi dichiarerà che il proprio parere ha queste esatte caratteristiche. La differenza con cinema, musica e letteratura, a mio parere, sta nel fatto che queste sono forme d’arte (o artigianato se preferite) statiche, dove la libertà di analisi sta soprattutto nell’interpretazione del messaggio e nei movimenti emotivi che provocano (o meno).

A una seconda visione, al centesimo ascolto, alla rilettura si possono cogliere dettagli, sfumature a cui anni prima non avevamo dato peso, ma l’opera rimarrà immutabile, cosa che per molti videogiochi non vale. In questo anche il fattore tecnologico e temporale è determinante. Giocare un titolo anni ’80 in real hardware o giocarlo emulato, su un televisore moderno, con un pad moderno, sono proprio due sensazioni diverse (e molti retrogamer direbbero che semplicemente il secondo caso è sbagliato). Così come lo scoglio tecnologico deve essere superato con grande forza di volontà se si vogliono scoprire alcuni capolavori degli anni ’90, con una grafica 32-bit figlia del suo tempo e gameplay 3D primordiali. Balzi tecnologici incomparabili a quelli delle altre industrie dell’intrattenimento, per rapidità ed effetti tangibili (spesso rivoluzionari) sul medium.

TRANCE AGONISTICA NEL VIDEOGIOCO

Torniamo ora all’interazione e ai suoi modi, alle partite distratte e a Super Mario. Un platform, in generale, è un comfort game perfetto: controlli semplici, obiettivi semplici, magari può essere anche infernalmente difficile, alla Meat Boy, però converrete che rimane un perfetto svago. Cosa succede però quando un gameplay del genere arriva nelle mani degli speedrunner, ad esempio? Cambia tutto, cambia lo scopo e cambia – o viene sfruttato in modo totalmente diverso – il modo di vedere il level design. Nelle mani di un giocatore comune o di un professionista, lo stesso gioco sembra vivere in due realtà parallele. Prendiamo manifestazioni come l’Evo, dove il gap diventa plateale e quello che, ai nostri occhi, può essere un semplice “picchiaduro” viene elevato ad arte marziale virtuale. C’è una differenza di abilità manuale e approccio mentale per cui uno Street Fighter VI verrà “utilizzato” come il 99% dei giocatori non farà mai. La preparazione, lo studio ossessivo dei tempi di input e delle collisioni, l’allenamento che porta le ore giocate a cifre lavorative, nonostante lo “strumento” sia lo stesso che io uso per farmi una partita-aperitivo, il pad in mano e una birretta fresca sul tavolino.

Street Fighter 6 AKI

Eppure, si potrebbe tranquillamente pensare che proprio quello sia il modo giusto di giocare; portare al limite il lavoro degli sviluppatori fino a spremerne fuori ogni goccia di gameplay. Io penso, semplicemente, che questi antitetici modi di fruire un’opera videoludica non facciano altro che confermare la non replicabilità dell’esperienza. Il videogioco esiste come “mezzo per”; per divertirsi, per studiare, per riflettere, per provare emozioni, per lavorare. Sta ad ognuno di noi dare un significato ad un’opera che, senza il nostro coinvolgimento, non avrebbe senso di esistere. C’è una sorta di intimità nel rapporto che si instaura con un videogioco, una complicità preziosa e unica, da comprendere e da cui ripartire per migliorare il nostro rapporto con questa industria.

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