Incompiuto. Rattoppato. Deludente, perfino, per qualcuno, perché dopo 80 milioni di dollari (tanti, per l’epoca) l’idea di ritrovarsi tra le mani qualcosa di meno che perfetto non era accettabile. Eppure 10 anni dopo il day-one di Metal Gear Solid V: The Phantom Pain il bisogno di parlarne è ancora lì, un arto fantasma le cui ferite bruciano ancora, bruceranno per sempre.
10 anni. Quasi 10 anni da quel primo settembre 2015. Quasi 10 anni e ancora mi capita di svegliarmi con la convinzione che tutto quello che è successo sia stata solo l’ennesima trovata di marketing di un gioco per cui Hideo Kojima si era inventato l’alias di Joakim Mogren, CEO di Moby Dick Studios, per presentare per la prima volta un gioco dove la crisi di identità è uno dei temi centrali. Non solo in-game, negli elementi che in letteratura si definirebbero diegetici, ma soprattutto fuori da quel Blu-ray su cui era memorizzato il gioco.
CALL ME ISHMAEL
Un gioco sulle identità in crisi che porterà a due crisi di identità
The Phantom Pain è il gioco che mette in discussione l’identità di Metal Gear Solid, non più Tactical Espionage Action ma “Operations”, perché (Venom) Snake non arriva più nudo sul luogo della missione dovendosela cavare da solo, viene invece paracadutato dopo aver scelto l’equipaggiamento da utilizzare e il compagno da cui farsi affiancare. È il gioco che mette in discussione il mito di Big Boss, ma soprattutto quello che mette in discussione lo status di enfant prodige di Hideo Kojima in Konami, portando due storie che fino a quel momento erano andati avanti intrecciate a dover prendere due direzioni diverse. Oggi per un Tripla-A è quasi la norma sfondare la soglia dei 100 milioni di dollari, arrivando facilmente anche a costarne il doppio. Nel 2015 erano cifre folli, che non potevano essere giustificate nemmeno da un gioco capace di vendere 3 milioni di copie al debutto, o almeno così la vedevano gli executive di Konami.
Pur di far rientrare The Phantom Pain in quella spesa, la casa madre gli recide un arto.

A differenza di Ground Zeroes, in The Phantom Pain tornano i nonsensi tipo le scatole. E i poster delle modelle.
Nella seconda parte di Metal Gear Solid V manca un terzo atto propriamente detto, col gioco che chiede di rigiocare alcune delle missioni già affrontate per sbloccare il finale dell’opera. È qui che dopo 10 anni mi capita ancora di svegliarmi volendo credere che sia tutto un imbroglio, un tentativo di vendere il mondo. Un gioco che parla della sindrome dell’arto fantasma che ce la fa provare rimuovendo dei contenuti in-game importanti, perché la loro assenza lascia insoluta la sottotrama di Eli e Tretij Rebenok/Psycho Mantis. Un gioco che parla di identità che vanno in crisi, che usa il testo di The Man Who Sold The World di David Bowie come sceneggiatura di un finale che ancora oggi ti fa sentire defraudato, che diventa crisi di identità tanto per il suo autore quanto per il suo publisher, che tre anni dopo proverà a pubblicare un Metal Gear senza Hideo Kojima per poi mettere in pausa la serie, remastered e remake a parte. Non può essere una coincidenza, giusto?
Non può essere una coincidenza, eppure la realtà ci dice che lo è
Eppure anno dopo anno sembra esserlo. Kojima Production è diventato uno studio indipendente, ha lavorato a due videogiochi già usciti e ne ha annunciati altrettanti, addirittura uno con Microsoft a fare da publisher. Eppure il Capitano Achab non ha smesso di dare la caccia alla balena bianca che lo ossessiona. Se nel primo Death Stranding i riferimenti a Metal Gear potevano essere derubricati a semplici autocitazioni è difficile fare la stessa cosa con On The Beach, specie considerando che persino Luca Marinelli era convinto che il suo personaggio in-game, Neil Vana, fosse in realtà Snake. Uno dei due giochi su cui KojiPro sta lavorando è un “espionage action”: la scelta di accoppiare queste parole non è casuale e si collega di nuovo a The Phantom Pain, il gioco che aveva abbandonato quelle due parole. Pensavo fossi morto da solo, un sacco di tempo fa. Oh no, non io.
V HAS COME TO
The Phantom Pain però è più del dolore fantasma che si prova nell’immaginare come sarebbe stato il gioco nella sua forma finale, quanto sarebbe stato soddisfacente giocare la fantomatica missione 51. È più di queste ossessioni extradiegetiche suscitate dalla figura del suo autore. The Phantom Pain, con tutti i suoi limiti dovuti in buona parte al contesto in cui è stato sviluppato, è il primo passo di idee che poi arriveranno a maturazione con Death Stranding.
The Phantom Pain è l’opposto chirale di Guns of the Patriots e delle sue cutscene esagerate
In “Luci guida anche nella morte”, la missione 43 del gioco, Snake è costretto ad eliminare diversi suoi commilitoni perché hanno contratto l’infezione del parassita delle corde vocali del ceppo inglese. Non c’è alternativa, perché se non si eliminano i soldati non potrà che seguire una pandemia – che è curiosamente un altro concetto liminale al racconto di Death Stranding. Snake, e il giocatore con lui, non possono fare a meno che eliminare i soldati infetti uno alla volta. Ogni uccisione è sottolineata da quella stessa voce a schermo che fino a quel momento toglieva o sottraeva punti alla reputazione di Big Boss a seconda delle sue azioni sul campo. Man mano che si procede poi a questa si aggiungono le reazioni dei Diamond Dog stessi. C’è chi chiama il nome di Big Boss con sorpresa, chi lo ringrazia, chi gli chiede di poter almeno morire all’aperto. C’è un momento in particolare in cui si entra in una stanza piena di soldati che stanno cercando di decidere cosa fare. “Decidi tu, Boss”. “Viviamo e moriamo ad un tuo comando”. I Diamond Dog non attaccano, non si ribellano, non fanno nient’altro che rivolgere a Snake il saluto militare, aspettando una decisione che non può prendere perché sta giocando una situazione scriptata. E il punteggio continua a diminuire.
La missione 43 è una delle vette raggiunte dal videogioco nel suo complesso
Anche per questo l’uscita di Death Stranding 2 proprio nel decennale di The Phantom Pain ha una certa poesia. Che non deve essere sfuggita nemmeno a Kojima Production, visto che anche Death Stranding 2 rende Moby Dick un elemento abbastanza importante della sua narrativa e ad un certo punto parla esplicitamente di dolore fantasma. Dieci anni dopo Achab non ha ancora smesso di cacciare, anche se la sua balena bianca non c’è più.