La prigione dorata dei videogiochi – Editoriale

Il mio primo articolo per TGM è stato lo speciale su Stadia. Un debutto importante, dovuto non tanto alle mie abilità di scrittore, quanto al mio credere – anzi sperare – nella streaming console di Google, potenzialmente in grado di spezzare le catene videoludiche che mi affliggevano da decenni, consentendomi di librarmi in volo nel nome di quel “play anywhere” che ci veniva promesso da tempo immemore.

videogiochi prigione dorata

Non vi sentite infatti prigioneri di fronte a televisori 4K o accanto a case zeppi di diavolerie, rinchiusi, confinati negli angusti spazi che la dittatura dei produttori hardware vi impone? Voglio raccontarvi la mia storia di videogiocatore vessato per sensibilizzarvi sul tema della mancanza di libertà di chi condivide la mia stessa passione. Il primo computer che entrò in casa fu lo ZX Spectrum, regalato a mio padre in mezzo a misere, inutili ceste natalizie piene di salumi prossimi alla data di scadenza e spumante allungato con il diesel. Quella sera avrei dato l’occhio sinistro per accenderlo, ma trasmettevano in TV un bel film che i miei genitori volevano assolutamente vedere e poi si sarebbe fatto tardi, così l’inaugurazione slittò al giorno successivo. Bisogna infatti ricordare che negli anni ‘80 i televisori non erano presenti in ogni stanza come adesso e nella maggior parte dei casi ne troneggiava uno in soggiorno e nulla più. Ogni minuto passato in compagnia della creatura di zio Clive era sottratto al palinsesto di Rai e affini. Inoltre a casa mia il computer veniva considerato una specie di surrogato dei programmi televisivi, e il suo utilizzo mi era consentito solo nelle ore serali, vincolato dal programma che sarebbe andato in onda. Bastava una semplice puntata di “Fantastico” per mandare a monte le mie partite.

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Mi trovavo allora di fronte a tre problemi: non potevo stare a “guardare il computer”, come diceva mia madre, il tempo che avrei voluto. Vigeva anche la bizzarra usanza dei due metri, distanza minima da tenere dall’apparecchio televisivo. Mutazioni indicibili sarebbero capitate agli sventurati che avessero osato avvicinarsi alle letali radiazioni del tubo catodico, ma io le affrontavo stoicamente sotto l’occhio vigile dei miei genitori, i quali giudicavano a spanne quando stavo rischiando troppo, ponendo un ulteriore limite alla mia voglia di videogame.

CIÒ CHE DESIDERAVO DAVVERO ERA IL C64, CHE INFINE ARRIVÒ A CASA MIA

Ma soprattutto, io sognavo il Commodore 64. Non era ancora il periodo di Head over Heels e di quei pochi altri titoli che effettivamente erano più belli su Spectrum, ed io ero ammaliato da Impossible Mission e Pitstop II provati in casa di miei amici. E alla fine, in seguito a una risicata promozione scolastica, arrivò. Spalancando le porte agli sprite multicolor ma anche a una serie di nuove restrizioni. Lo Spectrum aveva un design tollerabile. Non molto più grande di una calcolatrice scientifica dell’epoca, chassis nero, tastini gommati. Poteva permettersi di rimanere in mostra nei pressi del televisore. L’asso della Commodore invece no. Soprannominato affettuosamente dai fan “biscottone”, a casa veniva definito con un più dispregiativo “mattone”, e come tale andava celato alla vista. Di chi mai? “Metti che arrivi qualcuno e si trovi davanti quel mattone”. La possibilità di una visita a sorpresa era una minaccia costante, a causa della quale dovevo tenere in ordine la mia cameretta, non lasciare vestiti in giro per casa e, new entry, nascondere il biscomattone.

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