Questo pezzo sarà molto breve – ve lo dico subito – non perché sia stato preso improvvisamente da uno slancio di pigrizia, ma perché meno si parla di Detroit: Become Human e meno si rischia di incappare in spoiler inopportuni. D’altronde, siamo di fronte al tipico modus operandi di David Cage, dove la narrazione è il centro di tutta l’opera, ergo viene davvero difficile analizzarne sia i prodromi fondanti, sia gli effetti sullo sviluppo del plot narrativo, senza fare esempi che rovinino l’esperienza a chi vorrà giocarci prima o poi. Premesso ciò, ci sono sicuramente alcune riflessioni che si possono comunque fare dopo un paio d’ore di test, laddove ho avuto il privilegio di vivere l’incipit di Detroit: Become Human, di assaporarne il flow e di verificarne la struttura ludica, grazie anche al fatto che chi sedeva nelle postazioni alla mia destra e alla mia sinistra ha operato scelte molto differenti dalle mie (eh sì… sono proprio un gran curiosone).
TO BE OR NOT TO BE
Il setting, per quanto già sfruttato – e financo abusato – da altre opere (soprattutto letterarie), è assai affascinante. Ci troviamo nella più celebre città del Michigan, in un prossimo futuro, laddove gli androidi stanno sostituendo gli umani in molte faccende. L’incipit di Detroit: Become Human ci mette al controllo di tre di questi: Kara (Valorie Curry – The Twilight Saga) è un modello dedito alle faccende di casa, in una famiglia composta da un padre ubriaco e una figlioletta vessata; Markus (Jesse Williams – Grey’s Anatomy) fa da aiuto-badante a un vecchio pittore in pensione, bloccato su una sedia a rotelle per motivi che non ci è dato sapere; Connor (Bryan Dechart – The Remaining), infine, è un prototipo avanzato in forza alla Polizia, il cui scopo è la cattura dei “devianti”, ovvero degli androidi che violano il loro protocollo (e chissà se l’assonanza evidente tra il cognome dell’attore e quello del protagonista di Blade Runner è una questione casuale o, invece, incredibilmente voluta in fase di casting).
Detroit: Become Human è un titolo in pieno stile Quantic Dream
ESPLORA, VIVI, SCEGLI
Detroit: Become Human è un titolo in pieno stile Quantic Dream e non sposterà di una virgola, a meno di particolari stravolgimenti in sede di review, il pensiero che avete a proposito dei lavori del celebre director francese: i detrattori di David Cage resteranno tali, mentre gli appassionati dei suoi lavori troveranno qui pane fresco per i loro denti. Certo, in Detroit: Become Human si “gioca” un po’ di più, specie rispetto a quanto visto in Beyond: Due Anime: il titolo assorbe molto da Heavy Rain, sia per le atmosfere cupe e vagamente intime che vengono proposte ai giocatori, sia per il modo in cui la regia alterna il controllo dei tre androidi protagonisti. L’esplorazione degli ambienti e l’interazione con essi (per lo più attraverso movimenti con la levetta analogica destra) è abbastanza libera e contempla non solo l’utilizzo di Quick Time Event, ma anche di alcune variazioni sul tema. La più interessante e articolata di queste è legata a Connor: nelle sue indagini il poliziotto androide deve cercare indizi e ricostruire la scena dei delitti sfruttando una sorta di “potere investigativo”, per intenderci uno strano e riuscito mix tra quanto proposto da Rocksteady in Batman Arkham Knight e da DONTNOD nel mai troppo lodato Remember Me.
Le conseguenze delle scelte compiute vengono esplicitate alla fine di ogni scena attraverso un grafico che mette le diramazioni bene in vista (ovviamente coperte da punti di domanda nei percorsi che abbiamo evitato, così da evitare spoiler e invogliarci a riprovare per vedere cosa sarebbe altrimenti accaduto): qui è possibile rivivere parzialmente gli avvenimenti, partendo da un checkpoint particolare, qualora non fossimo rimasti soddisfatti del punto di arrivo. Inutile dire che si tratta di un espediente che ha senso sfruttare in una seconda run, perché la prima va assolutamente percorsa “a sensazione”, lasciando che le cose accadano secondo il copione che scriviamo a istinto, e non secondo logica.
Detroit: Become Human ci getta negli occhi esattamente ciò che ci si aspetterebbe da un titolo di David Cage
Non è dato sapere se (e come) tutto convergerà in un unico e limitato bunch di finali: già da ora, tuttavia, sbirciando i miei vicini di postazione mi è parso abbastanza evidente come le diramazioni siano abbastanza impattanti sulle scene susseguenti. Per portare al mulino della discussione esempi chiari dovrei ricorrere a spoiler, ma non lo voglio fare (e spero che i miei colleghi di altre testate siano stati abbastanza rispettosi da aver agito altrettanto coscienziosamente) e vi toccherà – almeno in questa sede – fidarvi della mia parola. Di sicuro chi si occuperà della recensione avrà una bella gatta da pelare qualora Sony non ci conceda la grazia di un codice in tempi umani, perché l’influenza delle ramificazioni sarà giudicabile solo attraverso diverse run, o percorrendone almeno una seconda in cui si sfrutti a ripetizione la possibilità di riprendere il percorso da un determinato checkpoint, così da abbracciare tutte le variabili del caso.
Chiudo giusto con mezza parola sul comparto tecnico, che potete comunque ammirare non solo attraverso le immagini statiche presenti in gran numero nella galleria qui sotto, ma anche nei numerosi video di gameplay che Sony ha pubblicato fino a oggi. Detroit: Become Human ci getta negli occhi esattamente ciò che ci si aspetterebbe da un titolo di David Cage: visivamente è fantastico, con punte elevatissime al momento di soffermarsi ad ammirare i volti e le espressioni dei protagonisti, in particolare dell’anziano pittore. Dopotutto, stiamo pur sempre parlando di un videogioco griffato Quantic Dream, un team che ha fatto proprio della muscolatura grafica uno dei suoi punti di forza. Can’t wait for more.