Ritornare su Kingdom Come: Deliverance ha significato confermare alcune certezze, ben documentate anche dai frequenti “dietro le quinte” pubblicati sui social da Warhorse Studios, ma anche vedere all’opera alcune interessanti idee di game design, nonché poterne saggiare l’aspetto tecnico a ormai pochi mesi dall’uscita. La build presentata a Milano nel corso dell’evento dedicato alla stampa del 6 dicembre si è concentrata sul far vivere un’esperienza medievale a tutto tondo, e le tre missioni su cui si focalizzava questa nuova prova sul campo sono state utili per delineare diverse situazioni in grado di mostrarci le potenzialità dell’ambizioso open world che ci vedrà scorrazzare, più o meno amabilmente, nella ricostruzione certosina delle campagne boeme tra le attuali cittadine di Sázava e Rataje nad Sázavou.
DOVE ERAVAMO RIMASTI
Molti degli elementi del gioco li conosciamo già: la prima persona in stile FPS che ricorda Mount & Blade e i titoli The Elder Scrolls, il combattimento iperrealistico basato sulla scherma medievale, l’assenza di minimappe e “GPS” di sorta e la non linearità delle quest in un mondo vivo e pulsante (che non ha paura di vivere al di fuori delle azioni del giocatore) sono tutte caratteristiche che hanno fatto la fortuna di uno dei crowdfunding videoludici più chiacchierati degli ultimi anni. Tuttavia, prima di iniziare una disamina più approfondita, è importante liberare il campo da alcuni possibili fraintendimenti: Kingdom Come: Deliverance è un gioco che con Skyrim e Mount & Blade condivide l’impostazione action in prima persona, ma che intraprende strade totalmente differenti. Il titolo di Warhorse Studios non teme di “urlare” la sua unicità, portando sui nostri schermi un’idea del gioco di ruolo fresca e che non obbliga ad un singolo approccio.
Il titolo di Warhorse Studios non teme di “urlare” la sua unicità, portando sui nostri schermi un’idea del gioco di ruolo fresca e che non obbliga ad un singolo approccio
Il combattimento è importante, certo, e risulta anche piuttosto tecnico e decisamente basato sull’abilità del giocatore, ma è chiaro come non sia il focus più importante. Il ritmo complessivo può apparire lento, ma questa è una chiara volontà di design, in grado di restituire un soddisfacente senso di progressione quando inizieremo la nostra storia di vendetta partendo come semplice figlio del fabbro del villaggio. La libertà di approccio è il mantra alla base del lavoro del game director Daniel Vávra, avendo bene in mente l’obbiettivo di unire una componente sandbox emergente a una forte narrativa, caratterizzata da una scrittura di livello in grado di darci forti sensazioni.
VIVERE LA STORIA
Kingdom Come: Deliverance è un titolo che, sin da subito, fa capire di non voler accompagnare per mano il giocatore, ponendo sull’esplorazione e sulla conseguente scoperta gran parte del suo senso di meraviglia. Vedere per la prima volta il castello del feudatario è un’esperienza intensa che mi ha ricordato la prima volta in cui con il buon vecchio “zio” Geralt si arriva, a dorso della fida Rutilia, alle porte di Novigrad in The Witcher 3: Wild Hunt. Nonostante Kingdom Come abbia ben poco da spartire con il capolavoro di CD Projekt RED ne condivide comunque la volontà di stupire il giocatore con ambienti raffinatissimi, frutto di una ricostruzione storica davvero curata. L’attenzione con cui il medioevo è raccontato è assoluta, merito anche della collaborazione con una storica che ha lavorato a stretto contatto con Vávra e il suo team, fornendo continui feedback. Intento accademico che rivediamo anche nello splendido codex, impreziosito da un’iconografia medievale d’effetto, dove troveremo – oltre ai classici tutorial – una parte tutta dedicata a raccontarci storia, politica e società di uno dei periodi che più affascina l’immaginario collettivo occidentale.
il codex è impreziosito da un’iconografia medievale d’effetto
IL MIO REGNO PER TRE MISSIONI
Durante la prima missione mi è stato possibile esplorare il castello del lord feudatario di riferimento, provare un po’ di addestramento militare, che funge da tutorial integrato in gioco, e assistere a una gustosa cutscene. Proprio quest’ultima ha dimostrato la grande attenzione sulla narrazione che, nonostante l’anima open world, rimane componente fondamentale dell’esperienza ludica. A partire da un writing eccellente, supportato anche da una ricerca linguistica non indifferente (un ottimo lavoro, tra l’altro, è stato fatto anche sulla localizzazione italiana), per arrivare a vere e proprie scelte registiche che convincono. Lo staging delle scene è piacevole e riesce a calare bene nell’atmosfera generale del gioco e della cupa storia raccontata.Una seconda missione forniva una panoramica sull’arte della guerra, mostrando un classico assalto a un fortilizio di banditi razziatori. Prima di scendere sul campo di battaglia, dando un’occhiata all’inventario è subito possibile notare il grande livello di complessità della simulazione. Basti pensare ai numerosi layer di armature, all’elmo completo che diminuisce la visuale, alla possibilità di colpire parti specifiche del corpo – urtando il braccio che regge lo scudo lo potremo far cadere – o la stessa gestione “hardcore” della stamina. Spada in mano, la battaglia è risultata foriera di molte possibilità: prima di partire allo sbaraglio era possibile preparare l’assalto tramite una serie di missioni secondarie in grado di far volgere gli eventi in nostro favore (avvelenare le risorse di cibo o bruciare le frecce degli arcieri avversari, entrando di soppiatto nell’accampamento prima dell’assalto, ad esempio). La medesima pugna, invece, ha mostrato un po’ il fianco in certi casi, mostrando una confusione a volte eccessiva, nonché dei casi in cui l’intelligenza artificiale non ha impressionato per furbizia. Alcuni limiti tecnici hanno poi fatto propendere per una soluzione che va a farci affrontare una serie di piccoli scontri, ciascuno con le sue peculiarità e obbiettivi, piuttosto che una singola battaglia campale. Soluzione di comodo che è risultata obbligata dal momento che sarebbe stato impossibile mostrare contemporaneamente a schermo centinaia di armigeri con un alto livello di dettaglio grafico e comportamentale.
L’infiltrazione in un monastero, nel tentativo di trovare un fuggitivo per conto del proprio feudatario, è stata una vera epifania
DA TOMMY ANGELO A HENRY
Impossibile capire se tutti gli elementi sopraccitati riusciranno a funzionare lungo le tante ore di gioco, ma volendo fare un po’ di “storia videoludica”, l’ultima fatica di Warhorse Studios pare essere il vero e proprio punto di arrivo di tutta la scena ceca dello sviluppo videoludico. Parlando con Tobias Stolz-Zwilling, PR manager della software house boema, mi è stato possibile accertare che l’esperienza fatta da Vàvra con il primo Mafia – nonostante, ovviamente, obbiettivi e setting differenti – è stata fondamentale (ricordiamo tutti lo stupore provato quando, abituati all’anarchia post-moderna dei Grand Theft Auto, la polizia di Mafia ci inseguiva anche solo se prendevamo un rosso a un incrocio). È altresì importante citare il nome di Viktor Bocan, membro di Warhorse Studios meno conosciuto, ma che sta avendo un ruolo assai importante nello sviluppo. Bocan ha lavorato ad opere come Arma o Operation Flashpoint, giochi di cui ben conosciamo l’afflato ipersimulativo e dei quali troviamo traccia anche in questo mondo medievale, dato che è ben evidente la volontà di non cedere alla tentazione delle eccessive semplificazioni.
Inutile dire che sto contando i dì che mi separano da quel maledetto febbraio che non ne vuole sapere di arrivare, con in mano un mio personalissimo calendario dell’avvento dove, ad ogni giorno, corrisponde la visione di un video per tentare di lenire il mio animo ferito dal non poterci giocare. Per ora, quello che si è visto fa davvero ben sperare e promette un’esperienza videoludica particolare per quello che potrebbe rivelarsi come il titolo medievale definitivo.