Paradossalmente, pur senza mostrare contenuti di gameplay del tutto inediti, la demo di Prey giocata a Londra ha raccontato cose ancora più importanti. Ha detto che ha fatto bene, ad esempio, chi ha pensato a System Shock dopo i primi riferimenti a un gameplay simulativo, e che l’amore sconfinato di Arkane per la tradizione di Looking Glass, Ion Storm o Irrational Games (anche Valve, per i motivi che vedremo più avanti), sembra stia portando a un risultato fragoroso, peraltro con tratti unici che ne delineano una personalità tutta sua. In fondo, una parte dei 60 minuti di gameplay erano l’esplicazione giocabile del primo trailer dell’E3, eppure sono stati anche una metafora narrativa di ciò che il Creative Director Raphael Colantonio ha più volte sostenuto, intorno al concetto di “simulazione” applicato a Prey: gli infiniti risvegli di Morgan Yu nella sua lussuosa stanza, i test per prepararlo allo spazio e persino il viaggio in elicottero verso il grattacielo della TranStar non sono altro che un complicato inganno sensoriale, da cui lo stesso scienziato si è difeso predisponendo un messaggio per se stesso, ormai preda delle amnesie indotte dai Neuromod. In quelle mille giornate tutte uguali, immerso nel sole di una calda mattinata sulla baia, Morgan Yu non si è mai mosso dalla stazione orbitante di Talos I.
WAKE UP
Con ogni probabilità, l’ingannevole simulazione in cui il protagonista si trova immerso riguarda qualcosa che ha realmente vissuto, magari nelle giornate prima di partire per il complesso scientifico intorno la Luna, come peraltro si evince nel gameplay che ho catturato durante la prova e che fa bella mostra di sé nella videoanteprima di Prey che potete ammirare qui sopra.
In quelle mille giornate tutte uguali, Morgan Yu non si è mai mosso dalla stazione orbitante di Talos I
Questi passaggi e quelli appena seguenti, a conti fatti, sono gli unici davvero lineari del nuovo Prey: una sempre efficace chiave inglese consente di infrangere la finta vetrata e irrompere nel vero cuore della stazione, mentre ancora prendiamo confidenza con i controlli e gli elementi di base del gameplay (la barra della stamina, ad esempio, rigorosamente limitata per tutti gli attacchi melee). Questa sezione cita chiaramente Half Life nel momento giusto, quando Prey è ancora “solo” uno stiloso action adventure in soggettiva: orride creature attaccano scienziati in stile Black Mesa, e anche la vestizione del protagonista omaggia l’analoga animazione per la Tuta di Contenimento di Freeman, stacchetto sonoro compreso.
Talos I è stata l’avanguardia dell’espansione umana, punto di culmine dell’ucronia immaginata da Arkane
SHOCK ALIENO
Proprio nella Lobby, dopo appena venti minuti, il gioco si apre definitivamente: atri e scale portano a diversi ambienti e il level design, così come la struttura delle missioni, dimostrano la propensione verso percorsi progressivamente più numerosi in funzione di abilità ed equipaggiamento (già il GLOO Cannon consente di costruire passaggi verso punti apparentemente irraggiungibili), in cui la citazione di Looking Glass Studios – direttamente in uno dei dialoghi, come nome di compagnia tecnologica – diventa qualcosa di più personale di un semplice omaggio. Nuove quest opzionali fanno la loro comparsa con la lettura dei computer personali e le scoperte nell’ambientazione, e anche i compiti principali si arricchiscono di possibilità multiple lungo l’esplorazione, vero e proprio fulcro di Prey.
Sono sicuro che anche qui, come in System Shock 2, Deus Ex, BioShock e Dishonored, da qualche parte ci sarà un codice ispirato a Fahrenheit 451…
Il mix, come detto, tira sicuramente nel mezzo anche System Shock 2 e Bioshock, rispettivamente per la scelta della classi (non esclusive, nel caso di Prey, è possibile piazzare Neuromod in qualsiasi ramo) e per la presentazione di dialoghi e dettagli d’atmosfera – o, sempre guardando a Bioshock, per l’aver scelto l’Art Decò come principale modello dello stile estetico, seppur in una chiave da fantascienza spaziale. Dal passato di Arkane, invece, in particolare dallo svilippo di Arx Fatalis, sembra provenire il diffuso utilizzo del crafting: la creazione degli item di Prey passa per macchinari – i Fabricator – in cui porre i materiali sulla base di progetti più o meno rari, per confrontarsi con la scarsità di risorse e l’impietoso sistema di danni, che iniziano a non scherzare già in modalità Normale (la seconda di quattro). A ben vedere poi, il ricorso al crafting potrebbe essere uno dei punti di contatto con Alien Isolation, accanto alla comune tendenza alla simulazione: i nemici incontrati nella demo spaventavano per l’apparizione improvvisa, grazie della facoltà di prendere qualsiasi forma (skill che sappiamo già di poter usare, così come sappiamo che un visore chiamato Psychoscope permetterà di studiare le abilità aliene), ma così potrebbe non essere per i minacciosi Nightmare, attirati dall’uso di Neuromod e letali quasi quanto uno Xenomorfo.
QUANDO L’HYPE TI FA TREMARE
Prey, insomma, si presenta come l’erede di tante efficacissime esperienze in prima persona (di culto, in diversi casi), una responsabilità che in qualche modo si è andato a cercare e che, di primo acchito, potrebbe pure essere soddisfatta.
Prey non c’entra nulla con il pur valido titolo di Human Head Studios, ma guadagna paragoni che dovrebbero stuzzicare qualsiasi amante del buon gioco
Ciò che mi spaventa è che non ci sono vere ragioni per aver paura, se mi permettete l’apparente paradosso. Prevedo un’onda di hype che spingerà gli orfani più integralisti di Looking Glass a vagliare qualsiasi dettaglio al microscopio, e gli appassionati dell’originale Prey scontenti a priori per via della (dichiaratissima, peraltro) distanza dal concept di 3D Realms. Il 5 maggio non è poi così distante, e non vorrei ritrovarmi a litigare con un sacco di gente.