Nelle riflessioni di qualche giorno fa, questo speciale doveva focalizzarsi interamente sulla sorpendente lettura di Sotto la Pelle di Michel Faber, per una volta avvenuta solo dopo aver visto il film di Jonathan Glazer, quello con una Scarlett Johansson più bella e “vera” che mai (quasi un paradosso, considerata la falsa identità della protagonista). Ora, al di là del fatto che un articolo del genere sarebbe stato ancora più di nicchia, roba da qualche decina di lettori in croce, la visione in una lunga maratona di otto episodi (su dieci) di Philip Dick’s Electric Dreams ha stimolato altri spunti sulla stessa analisi, antica almeno quanto la settima arte (con tutti i suoi figli, che siano i serial o, molto più sporadicamente, i videogiochi con ascendenza letteraria): adattare da un racconto o romanzo un’opera audiovisiva è una delle imprese più ostiche in cui soggettisti e sceneggiatori si possono andare a infilare. E la difficoltà, com’è ovvio che sia, è direttamente proporzionale al genio che si sta tentando di trasporre.
Cercherò di risolvere rapidamente la questione intorno a Sotto la Pelle. Il film mi era piaciuto parecchio, nonostante le drastiche libertà di cui ero a conoscenza solo per sommi capi, salvo constatare che il mio parere era ben lungi dall’essere universalmente condiviso: il regista ha interpretato a suo modo una piccola parte delle tematiche originali, cercando di sublimarle sul piano di un’onirica visionarietà, secondo me con gusto sopraffino, e finendo per evocare una sorta di L’uomo che cadde sulla Terra in versione morbosa e allucinata.
la storia originale di Sotto la Pelle era ben più complessa e potenzialmente costosa
Realizzare il film di Sotto la Pelle è stato forse più semplice rispetto ad altri esempi, proprio per la scarsa conoscenza che il grande pubblico aveva (ed ha) dell’opera originale. Se vogliamo, con tutte le gigantesche distanze qualitative del caso, questo fu un po’ anche il privilegio di Blade Runner nel 1982: il film di Scott si é trovato nella comoda condizione di confrontarsi con la scarsissima conoscenza delle tante questioni poste dal romanzo, tra cui i media e l’impatto delle religioni, ma é anche la dimostrazione di come un team di geniali artigiani ben guidati possa, talvolta, arrivare a un risultato parimenti straordinario. Non c’è la moglie di Deckard, Rachael non é la proiezione di una delle “perfide” mogli dello scrittore e non ci sono nemmeno le pecore elettriche (al limite un boa, con un senso più semplice e materiale), ma tutto ciò che è stato aggiunto, modificato o stravolto è stato a sua volta capace di costruire una visione coerente e completa, compresa la struttura genetica di “androidi” che lo spettatore, per primo, non può che riconoscere in gran parte umani. Anzi, per molti versi i Replicanti sono bambini con il corpo di adulti, parimenti curiosi e talvolta crudeli, cosa che rende ancora più fluida la comprensione di un’empatia speculare, tra umano e artificiale, peraltro metabolizzata da vere masse di appassionati ben più tardi rispetto all’uscita del film, esattamente come l’assunzione al culto della pellicola.
QUANDO LA FANTASCIENZA DI DICK SI FA SERIE TV
E qui arriviamo a Philip Dick’s Electric Dreams, primo serial “antologico” (beh, fino a un certo punto) dedicato allo scrittore californiano dopo anni di cinema fantascientifico a vari livelli, ahimè tendenti con più facilità verso il basso. I problemi non sono pochi nemmeno in questo caso, ma almeno hanno il beneficio di non sfociare mai nel grottesco d’azione e di sforzarsi, in generale, di incorniciare il tutto in un mix visivo di alto profilo, mischiando l’estetica delle riviste pulp e sci-fi anni ‘50 e ‘60 (le stesse su cui Dick spesso scriveva) con il design delle tecnologie moderne. Purtroppo, la stessa attenzione a immagini “catchy” si è mangiata un po’ di cura sugli aspetti meno scontati, e soprattutto ha ceduto a troppi elementi ponte per la trama, che la rendessero in alcuni casi più “sceneggiata” e in altri costruissero un’intesa più diretta con la generazione Black Mirror. Tra gli esempi più riusciti c’è l’episodio più fedele di tutti, Human is, con il produttore della serie Bryan Cranston nel ruolo di assoluto protagonista (accanto, però, all’elegante e sontuosa Essie Davis); una puntata manchevole di carattere in alcuni passaggi, ma perfettamente in grado di restituire il messaggio accennato nel titolo, Umano è (ciò che umano appare), più come qualità universale che non come valore oggettivo della nostra specie.
Philip Dick’s Electric Dreams è il primo serial “antologico” dedicato allo scrittore californiano dopo anni di cinema fantascientifico a vari livelli
Ed è così che, per cercare un esempio insuperato di trasposizione “pura” da Philip Dick, ancora oggi occorre spostarsi lontano da Electric Dreams. A parte la riuscita ma “scolastica” fedeltà di Screamers (tratto dal citato Second Variety, genitore di tutte le guerre delle macchine contro l’uomo, da Terminator a Matrix), solo Richard Linklater è riuscito a costruire con A Scanner Darkly una riduzione fedele, completa di tutti gli ingredienti e personaggi più importanti, praticamente l’opposto di quel che accadde con Blade Runner. Nel primo caso l’autore ha rinunciato a esprimere una parte di se stesso, inchinandosi, geniale estetica a parte, alla grandezza del testo originale; nel secondo, invece, l’idea era di appropriarsi totalmente di un’idea al punto di farla diventare propria, costruendo un nuovo mondo che funzionasse altrettanto bene. L’unica tratto comune, per quanto banale possa apparire, è stata la grandezza di tutti i soggetti coinvolti, dall’ultimo dei tecnici fino ad attori, registi e semplici comprimari.
la qualità di Philip Dick’s Electric Dreams non è apparsa così distante dalle ultime due stagioni di Black Mirror