Dishonored è (quasi) la realtà

Sarebbe ipocrita dare la colpa alla mancanza di tempo, vero Dishonored? Se non riuscirò mai a disbrigare alcune pratiche ludiche, smarrite in un backlog gargantuesco, è semplicemente perché continuo a reinstallare e giocare le “vecchie glorie”. L’anno scorso è toccato a TES III: Morrowind e Syberia, e periodicamente dedico le 60 ore di rito a Gothic, probabilmente il gioco di ruolo a cui sono maggiormente affezionato trattandosi del mio primo open world (quando il termine non era ancora sinonimo di crafting, grinding e level scaling).

Questo mese, il dado a 20 facce delle nostalgia ha optato, in sequenza, per BioShock e Dishonored. Archiviato in tempi brevi, ma sempre con gusto, il titolo di Irrational Games, mi sono spostato con una certa trepidazione sul capolavoro di Arkane Studios, animato dal desiderio di provare itinerari alternativi e produrre – se possibile – un gameplay a basso coefficiente di “caos”; volontà che è stata presto affiancata dalla contemplazione del lungimirante quadro distopico dipinto dalla sussidiaria di Bethesda (ora sotto Microsoft).

I VIDEOGIOCHI E L’EPIDEMIA

Facciamo un passo indietro. Dishonored non è certo il primo videogioco a includere nell’intreccio il tema della pestilenza, anzi, questo argomento sembra essere particolarmente “caro” agli sviluppatori tanto che, nel 2002, mi sono trovato a giocare due titoli dal canovaccio molto simile: un’epidemia dilagante e un paladino che ha smarrito la retta via. Mi sto riferendo, logicamente, a Neverwinter Nights e Warcraft III: Reign of Chaos, e ad Arthas e Lady Aribeth de Tylmarande.

il tema della pestilenza sembra particolarmente “caro” agli sviluppatori

Parliamo, in ambedue i casi, di trame poco incisive che lasciano com’è giusto ampio spazio al gameplay, e infatti la maturità è sopraggiunta in anni più recenti con Shardlight di Wadjet Eye Games (2016), Thief (il reboot del 2014) e, naturalmente, il titolo in oggetto, Dishonored (2012). In tutti e tre i casi, va lodato il lavoro degli sceneggiatori la cui abilità, “chiaroveggenza” o opportuna ricerca storica ha portato ad affrescare altrettanti videogiochi che con la realtà dei giorni nostri – quella legata alla pandemia da COVID-19, per essere chiari – condividono davvero tanti punti in comune.

In Shardlight impersoniamo Amy Wellard, una giovane meccanica alle prese con le dinamiche della rivoluzione. La società in cui vive la protagonista è piagata dal “Polmone Verde”, una pestilenza nata in seguito alla caduta delle bombe. Il popolino è governato da un regime aristocratico inamovibile che ha i sapori della Francia settecentesca e dell’antica Roma, a creare un amalgama sui generis davvero notevole. Nell’opera di Wadjet Eye Games spiccano immediatamente quelli che sono i leitmotiv dei giochi sopraccitati: l’invito alla delazione, la voce impositiva del governo  (leggete questo articolo sulle misure inglesi… La vicinanza è impressionante, vero?) che si esprime nel gioco attraverso altoparlanti sempre accesi o tramite quotidiani asserviti – e un impiego di guardie armate che pattugliano piazze e strade, dovendo far rispettare un severissimo coprifuoco.

Dishonored, il reboot di Thief e Shardlight condividono davvero troppi punti in comune con la quotidianità creatasi in seguito alla pandemia

In questo contesto, il monolitico Ministero della Medicina dispensa il vaccino con una priorità che viene valutata in base all’utilità o posizione sociale, mentre la gente comune – che indossa opportune fasciature o mascherine a protezione del volto – deve ricorrere alla buona sorte accettando lavori ad alto tasso di rischio per ricevere in cambio un biglietto della lotteria (ovviamente pilotata!) che dà diritto, in caso di vincita, ad una dose di siero.

Se Shardlight è una pregevole avventura in pixel art, e in quanto tale presenta una trama particolarmente curata, non è da meno Thief di Eidos Montréal, laddove al preponderante gameplay di natura stealth si affiancano i temi sopraelencati; soprattutto, si rivelano particolarmente ficcanti gli stralci di alcuni quotidiani di propaganda rinvenibili nel mondo di gioco che dispensano i “consigli” dei governanti.

ci tengo a puntualizzarlo: non sono un negazionista

Fra i tanti, mi preme citare “I benefici di un coprifuoco severo” (in cui si rammenta alla gente come siano giorni di grande cambiamento e progresso), “Attenzione agli eccessi d’immaginazione!” (uno spiritoso omaggio al fenomeno delle fake news, sempre alla ribalta), o meglio ancora “Scegliete di non protestare!” (autoesplicativo). Che dire? Pare di leggere reinterpretazioni distopiche del clima mediatico odierno. Per una vostra consultazione, e raffronto, trovate una galleria in calce all’editoriale. Piccola nota: per chi desiderasse obiettare che – per suggestioni visive e altri temi – “Thief è il figlio minore di Dishonored”, ricordo che nel titolo dedicato a Garrett lo stealth è più puro e il livello del bordello dà certamente maggiori soddisfazioni!

DISTOPIA OGGI

Arriviamo, infine, a Dishonored: qui la peste è “tangibile”, è letteralmente il fil rouge dell’opera, con il protagonista che si muove – possibilmente furtivo – fra sciami di ratti e piangenti (persone che hanno contratto il morbo). Gli edifici, altissimi e corazzati da placche di metallo, e gli onnipresenti manifesti del regime sono unti e bisunti dall’olio di balena, il carburante di questa distopia.

la fittizia propaganda nei videogiochi, a volte, si avvicina tristemente alle news reali

Di più, Dishonored è (quasi) la realtà, laddove molti negozi sono stati costretti a chiudere per volontà del governo, dove gli usci delle abitazioni sono bloccati da meccanismi a molla che rassomigliano ai respingenti dei treni; dove si invita alla delazione (ancora) e si cercano volontari per praticare un’ossessiva conta dei morti. E, immancabili, troviamo le guardie e gli altoparlanti che berciano in continuazione, ricordandoci che il Lord Reggente si dichiara veramente dispiaciuto per il fatto di dover rimanere in carica un altro anno, causa il protrarsi dello stato di emergenza! Tutti elementi che, quando non hanno una spiccata affinità, ricalcano l’attualità e portano il sottoscritto a porsi una domanda: perché, se inseriti in un contesto videoludico, i giocatori trovano disturbanti questi fattori, mentre nello schema del quotidiano vengono considerati tollerabili? (Beh, ovviamente dipende. Se accostiamo la faccenda a quella reale in Italia, in merito ad alcune decisioni e il prolungamento dello stato di emergenza, il fatto che il nostro paese si sia distinto a livello internazionale per la gestione della “prima ondata” è uno dei possibili motivi di accettazione delle regole, anche se certo non può valere all’infinito, ndMario)

ATTENZIONE, ci tengo a puntualizzarlo: non sono un negazionista, affermo l’esistenza e la pericolosità del virus e dichiaro che che occorre prendere le opportune precauzioni, cautele che personalmente osservo dall’inizio della pandemia. Le precisazioni appena fatte per dire che non intendo mancare di rispetto ad alcuno accostando “reale” e “virtuale”, “sacro” e “profano”, né desidero suggerire atteggiamenti irresponsabili, ma quando vedo come i videogiochi abbiano saputo prevedere l’andamento del vivere civile in una simile evenienza vengo spinto a riflettere.

Perché troviamo disturbanti le limitazioni alla libertà in un videogioco, mentre le tolleriamo nella realtà?

Nel momento in cui perdo una libertà mi chiedo sempre QUANDO e SE tornerà, e credo che nell’anno in corso se ne siano sacrificate parecchie: in tanti paesi del mondo non possiamo incontrarci a nostra discrezione per ragioni di salute, nelle metropoli vi sono telecamere dappertutto (“per la nostra sicurezza”, come ci viene ricordato sulle vetture dei treni, ad esempio), il segreto bancario è crollato in nome della lotta all’evasione ed è stato posto un tetto all’uso del contante per un mix delle ragioni precedenti. Tutti ottimi motivi, va detto, ma l’elenco delle nostre autonomie va restringendosi di pari passo con quanto sopra e con una burocrazia che si fa sempre più asfissiante, fra questionari antiriciclaggio, autenticazione forte a due fattori, invio dei dati catastali per l’allaccio di forniture, moduli di autocertificazione per la quarantena, pop-up per l’accettazione dei cookie e carte per le normative sulla privacy.

Alla fine, cosa rimarrà a completa discrezione dei cittadini, in caso di un prolungamento di questa crisi o la sopraggiunta di altre epidemie? Forse quanti messaggi inviare dallo smartphone, se rateizzare o meno i pagamenti delle imposte e quale videogioco installare sul proprio computer. Nell’eventualità, sceglierò Dishonored, per ricordarmi come la realtà NON deve essere perché – anche qualora non foste d’accordo con quanto detto – rimangono comunque inquietanti e numerosissimi i punti di contatto fra il gioco di Arkane e la quotidianità. E benché non vi siano respingenti alle porte delle abitazioni per impedirci di uscire di casa, trovo che hashtag opportunamente mirati e il tanto evocato tracciamento ne facciano talvolta le veci.

 

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