Sarebbe ipocrita dare la colpa alla mancanza di tempo, vero Dishonored? Se non riuscirò mai a disbrigare alcune pratiche ludiche, smarrite in un backlog gargantuesco, è semplicemente perché continuo a reinstallare e giocare le “vecchie glorie”. L’anno scorso è toccato a TES III: Morrowind e Syberia, e periodicamente dedico le 60 ore di rito a Gothic, probabilmente il gioco di ruolo a cui sono maggiormente affezionato trattandosi del mio primo open world (quando il termine non era ancora sinonimo di crafting, grinding e level scaling).
Questo mese, il dado a 20 facce delle nostalgia ha optato, in sequenza, per BioShock e Dishonored. Archiviato in tempi brevi, ma sempre con gusto, il titolo di Irrational Games, mi sono spostato con una certa trepidazione sul capolavoro di Arkane Studios, animato dal desiderio di provare itinerari alternativi e produrre – se possibile – un gameplay a basso coefficiente di “caos”; volontà che è stata presto affiancata dalla contemplazione del lungimirante quadro distopico dipinto dalla sussidiaria di Bethesda (ora sotto Microsoft).
I VIDEOGIOCHI E L’EPIDEMIA
Facciamo un passo indietro. Dishonored non è certo il primo videogioco a includere nell’intreccio il tema della pestilenza, anzi, questo argomento sembra essere particolarmente “caro” agli sviluppatori tanto che, nel 2002, mi sono trovato a giocare due titoli dal canovaccio molto simile: un’epidemia dilagante e un paladino che ha smarrito la retta via. Mi sto riferendo, logicamente, a Neverwinter Nights e Warcraft III: Reign of Chaos, e ad Arthas e Lady Aribeth de Tylmarande.
il tema della pestilenza sembra particolarmente “caro” agli sviluppatori
In Shardlight impersoniamo Amy Wellard, una giovane meccanica alle prese con le dinamiche della rivoluzione. La società in cui vive la protagonista è piagata dal “Polmone Verde”, una pestilenza nata in seguito alla caduta delle bombe. Il popolino è governato da un regime aristocratico inamovibile che ha i sapori della Francia settecentesca e dell’antica Roma, a creare un amalgama sui generis davvero notevole. Nell’opera di Wadjet Eye Games spiccano immediatamente quelli che sono i leitmotiv dei giochi sopraccitati: l’invito alla delazione, la voce impositiva del governo (leggete questo articolo sulle misure inglesi… La vicinanza è impressionante, vero?) che si esprime nel gioco attraverso altoparlanti sempre accesi o tramite quotidiani asserviti – e un impiego di guardie armate che pattugliano piazze e strade, dovendo far rispettare un severissimo coprifuoco.
Dishonored, il reboot di Thief e Shardlight condividono davvero troppi punti in comune con la quotidianità creatasi in seguito alla pandemia
In questo contesto, il monolitico Ministero della Medicina dispensa il vaccino con una priorità che viene valutata in base all’utilità o posizione sociale, mentre la gente comune – che indossa opportune fasciature o mascherine a protezione del volto – deve ricorrere alla buona sorte accettando lavori ad alto tasso di rischio per ricevere in cambio un biglietto della lotteria (ovviamente pilotata!) che dà diritto, in caso di vincita, ad una dose di siero.
Se Shardlight è una pregevole avventura in pixel art, e in quanto tale presenta una trama particolarmente curata, non è da meno Thief di Eidos Montréal, laddove al preponderante gameplay di natura stealth si affiancano i temi sopraelencati; soprattutto, si rivelano particolarmente ficcanti gli stralci di alcuni quotidiani di propaganda rinvenibili nel mondo di gioco che dispensano i “consigli” dei governanti.
ci tengo a puntualizzarlo: non sono un negazionista
DISTOPIA OGGI
Arriviamo, infine, a Dishonored: qui la peste è “tangibile”, è letteralmente il fil rouge dell’opera, con il protagonista che si muove – possibilmente furtivo – fra sciami di ratti e piangenti (persone che hanno contratto il morbo). Gli edifici, altissimi e corazzati da placche di metallo, e gli onnipresenti manifesti del regime sono unti e bisunti dall’olio di balena, il carburante di questa distopia.
la fittizia propaganda nei videogiochi, a volte, si avvicina tristemente alle news reali
ATTENZIONE, ci tengo a puntualizzarlo: non sono un negazionista, affermo l’esistenza e la pericolosità del virus e dichiaro che che occorre prendere le opportune precauzioni, cautele che personalmente osservo dall’inizio della pandemia. Le precisazioni appena fatte per dire che non intendo mancare di rispetto ad alcuno accostando “reale” e “virtuale”, “sacro” e “profano”, né desidero suggerire atteggiamenti irresponsabili, ma quando vedo come i videogiochi abbiano saputo prevedere l’andamento del vivere civile in una simile evenienza vengo spinto a riflettere.
Perché troviamo disturbanti le limitazioni alla libertà in un videogioco, mentre le tolleriamo nella realtà?
Alla fine, cosa rimarrà a completa discrezione dei cittadini, in caso di un prolungamento di questa crisi o la sopraggiunta di altre epidemie? Forse quanti messaggi inviare dallo smartphone, se rateizzare o meno i pagamenti delle imposte e quale videogioco installare sul proprio computer. Nell’eventualità, sceglierò Dishonored, per ricordarmi come la realtà NON deve essere perché – anche qualora non foste d’accordo con quanto detto – rimangono comunque inquietanti e numerosissimi i punti di contatto fra il gioco di Arkane e la quotidianità. E benché non vi siano respingenti alle porte delle abitazioni per impedirci di uscire di casa, trovo che hashtag opportunamente mirati e il tanto evocato tracciamento ne facciano talvolta le veci.