L'eredità di The Last of Us in un tatuaggio - Editoriale

L'eredità di The Last of Us in un tatuaggio - Editoriale

Non poche settimane fa, in un weekend fuori porta in zona Lucca, noto una ragazza che si sbottona la manica di una camicia per portarsela all’altezza del gomito, scoprendo un tatuaggio. Era la falena che cerca la luce di Ellie in The Last of Us Parte 2. Nel giro di un paio di secondi la testa è stata offuscata da un quantitativo assurdo di pensieri, buoni per un editoriale fiume dove puntellerò tanti argomenti, non venendo a capo di nulla, ché la confusione dalle mie parti è sempre di casa.




UN FENOMENO PLANETARIO

The Last of Us è solo la partenza per esplorare diversi concetti di cui – forse – sono riuscito a trovare una corrispondenza non solo nelle produzioni videoludiche, ma anche negli accordi crossmediali siglati grossomodo negli ultimi sette anni.
Al principio ci fu proprio The Last of Us, canto del cigno della generazione PlayStation 3 che, per quanto collocato gli ultimi anni di vita della console, diventò oggetto da possedere necessariamente, perché per vivere le vicende di Joel ed Ellie era necessario avere l’ammiraglia Sony in casa. Era il gioco della maturità per Naughty Dog. Dopo gli ottimi capitoli della saga di Uncharted era stato rincorso uno sforzo produttivo maggiore, l’esame di maturità per dimostrare di poter alzare ulteriormente l’asticella qualitativa.

Il risultato fu un titolo memorabile che amalgamava perfettamente il gameplay solidissimo a una storia ricca, sfaccettata, mai banale, piena di significati e che rimescolava felicemente i classici clichè e topoi del genere di appartenenza.

uncharted ps3 multiplayer

Con The Last of Us capitava quella magia di finire il gioco, spegnere la console e fantasticare su quei personaggi e quel mondo nella nostra mente. Volevamo tutti un sequel, e allo stesso tempo non lo volevamo per paura di veder tradita la nostra visione ideale dell’opera. Questo è ciò che attanaglia ogni appassionato di una creazione di alto livello, che sia film, videogioco, fumetto o libro: quando quel personaggio e quel mondo ci entrano così nel cuore, quasi come le immagini dell’infanzia che non ci abbandonano mai, le nostre speranze per un seguito pronto a narrarci “ufficialmente” il proseguo della storia possono diventare un veleno.

the last of us per i ragazzi di naughty dog è stata la prova più importante, un vero esame di maturità superato a pieni voti

I personaggi che amiamo periscono, altri non avranno l’approfondimento psicologico che desideriamo e via di questo passo. La cosa impressionante di tutto ciò è che dal momento delll’annuncio fino al burrascoso arrivo tra le nostre mani di The Last of Us Parte 2, sette anni dopo, il seguito di appassionati nel mondo registrava numeri fuori di testa proprio considerando che, alla fine,  tutto quel fandom impazzito veniva da una singola iterazione, un singolo gioco del 2013.

Per fare un esempio chiarificatore, i milioni di fan di Star Wars nel mondo si sono formati grazie a tante pellicole e videogiochi, oltre a libri, fumetti e giocattoli, ma di The Last of Us fino al 2020 ne avevamo solo uno. Abbiamo giocato sempre e solo quello, innamorandoci ogni volta di più.

IMPRESSO NELLA PELLE

Torniamo all’inizio del pezzo: vedo questa ragazza, vedo il tatuaggio e, santa miseria, il pensiero che ho esposto proprio poche righe fa prende una maggiore consapevolezza. Il medium videogioco sta acquisendo una forza trascinante mai vista prima, anche perché negli ultimi anni c’è stato un movimento non indifferente di diversi settori verso il videoludico, in particolare il cinema e le serie tv, in termini sia quantitativi che qualitativi.

Una carrellata veloce: la trilogia di The Witcher e la controparte televisiva di Netflix, The Last of Us e la già annunciata serie tv per mano di HBO, i progetti di animazione legati a Dragon’s Dogma e Castlevania (sempre Netflix), il rilancio e rispolvero dell’IP di Resident Evil con i nuovo capitoli in prima persona e, in ordine sparso, reboot cinematografico, serie d’animazione e serie tv in live action, entrambe ad opera di Netflix.

E allora che succede? C’è davvero un genuino ed enorme interesse di tutto l’universo audiovisivo per il settore videoludico? La risposta, è mio modesto parere è un sonoro No. Restringendo lucidamente il campo, tirerei in ballo un altro fattore, quello del blockbuster.

resident evil village

Se nel cinema si indica spesso il film fracassone, pieno di effetti speciali, costato centinaia di milioni di dollari con la missione di triplicare quella cifra al boxoffice, la stesa formula applicata oggi al mondo dei videogiochi restituisce più un profumo da franchise trasformati in “personalità” di settore, vere e proprie rockstar, gli animali da palco che trasmettono passione ed energia.
Senza passione, quella ragazza non sarebbe mai andata a tatuarsi la falena sul braccio, e senza videogiochi quali The Last of Us, The Witcher 3 o Resident Evil 7, la mutazione transmediatica non sarebbe avvenuta.

Ciò che si percepisce quando sentiamo parlare director, producer o qualunque altro ruolo cruciale nella catena produttiva di un AAA, è che la missione intrapresa nella realizzazione di quel videogioco rasenta l’impresa divina. Immaginate un Cory Barlog qualsiasi durante i periodi più intensi e cruciali della realizzazione del rilancio su PlayStation 4 di God of War. Non riesco a non pensarlo assorto nei pensieri, desideroso di dare uno scossone forte nell’industria (che è un po’ la sensazione che si prova ad ogni esclusiva di casa Sony, quell’impressione di esclusività quasi fosse il voto religioso a una causa ultraterrena) (beh, oggi un po’ meno, mentre è in atto la slavina di ex-esclusive verso il PC, ndMario).

la memoria che abbiamo di un videogioco si sta tramutando in una vera e propria eredità difficile da scalfire o ignorare

Anche Resident Evil 8 Village ha avuto lo stesso trattamento da Capcom: studiato e coccolato a tavolino, assieme al progetto di rilancio generazionale dei titoli più vecchi, con l’obiettivo di immolare tutto il franchise per un volere più grande, metterlo a lucido, esporlo in bacheca per poi lasciarlo libero di serpeggiare fra noi giocatori.

Dunque ritorno su quel tatuaggio, sul potere di un’icona o di un’immagine, elementi che contraddistinguono il giudizio positivo di questa e quell’altra opera – o anche negativo, se per qualcuno arriva la delusione, e in tal caso la difficoltà dell’operazione di cancellazione dell’immagine sulla pelle può quasi diventare una metafora. Ho sentito persone che volevano tatuarsi le rune di Bloodborne, o il logo di The Witcher (e qualcuno che conosco lo ha fatto proprio poche settimane fa).

Insomma, i videogiochi stanno cambiando e non solo perché l’industria cinematografica e televisiva ha riscoperto che esistono i diritti di sfruttamento, ma anche perché quello che in molti possono idealizzare il ricordo di un bel gioco come una vera e propria eredità, qualcosa che non è più solo il bel ricordo del livello delle formiche in MediEvil, bensì una passione che pulsa forte più che mai, capace di applicare ad un personaggio e un mondo fittizio un corrispondente valore personale, tanto da volerlo portare addosso, non su una maglietta ma direttamente sul nostro corpo.

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