Meguro, Tokyo: 1980. Interno sala giochi. Primo piano su un gruppo di ragazzini davanti ad un cabinato di Space Invaders. L’inquadratura scarrella fino ad arrivare ai margini della sala dove una ragazza sola si guarda attorno in imbarazzo. La camera si sposta su un Toru Iwatani schifato che esce dalla sala giochi sbattendo la porta. Stacco. Amsterdam, 2011. Interno di un vecchio coffee shop. Un impiegato scribacchia appunti, attorno l’odore acre dell’erba consumata ai tavoli. Zoom sul badge che porta al collo, logo di Guerrilla Games in bella vista. La cameriera porta il suo ordine interrompendo il flusso dei suoi pensieri. Lo sguardo cade su un cabinato vecchio trent’anni.
Tutto questo è successo davvero, anche se probabilmente solo nella mia testa. L’ennesimo film mentale diretto da me medesimo, incapace di concentrarmi davvero sulle cose e costretto a vagare con la mante su strade prive di indicazioni. Anche quando gioco ai videogiochi. Soprattutto, quando gioco ai videogiochi. In particolare, in questi giorni sto consumando Horizon Forbidden West. E inevitabilmente davanti alla copertina digitale di Vanity Fair che ne ritrae la protagonista non posso che pensare a Pac-Man.
È facile dopo un’operazione del genere fare un (breve) elenco di personaggi femminili del videoludo finite sulle copertine di qualche magazine. Apripista e incarnazione massima di questa tendenza è fuor di dubbio Lara Croft, comparsa dal 1996 a oggi sul Time, su Newsweek e per proxy anche su PlayBoy, quando Nell McEndrew (che impersonava il personaggio negli eventi pubblici per conto di Core Design) posò per Hugh Hefner. È facile, appunto. Facile fare un parallelo tra quello che sta succedendo ad Aloy, lanciata dagli ultimi stunt pubblicitari di Sony e dal dibattito nato attorno a questi verso lo status di nuova icona delle donne nel videogioco. Ma facendolo si va a trascurare un dettaglio non di poco conto, ovvero: non è più il 1996, e il messaggio dietro Aloy vuole essere diverso da quello che c’era dietro l’archeologa di Core Design.
Lara è un personaggio forte. Un’erudita dalla lingua tagliente, sempre pronta al sarcasmo e fredda come lo era il frigorifero in cui milioni di giocatori hanno rinchiuso il suo maggiordomo. Ma era – è stata intesa, quantomeno – soprattutto un premio per il giocatore, un esempio di male gaze prima ancora che importassimo l’espressione dall’estero. Lara Croft era un personaggio tridimensionale, che però non è entrato nell’immaginario collettivo per il suo carattere, ma per il suo status di maggiorata. Non è un caso che dei due reboot ad opera di Crystal Dynamics quello che ha fatto discutere sia il secondo, che si allontana maggiormente dall’iconografia del personaggio, in particolar modo nell’estetica.
Torniamo a Meguro, Tokyo, nel 1980. Toru Iwatani percepiva effettivamente come un problema che il videogioco da sala parlasse solo ad un pubblico maschile. Andavano per la maggiore produzioni come Space Invaders, giochi violenti in cui l’obiettivo era sparare e ammazzare. E non che una ragazza non possa trarre da questo lo stesso piacere di un ragazzo, chiaro, ma in una società molto più eteronormativa della nostra era effettivamente un problema. Pac-Man nasce come videogioco trasversale, in grado di superare questo limite e parlare a tutti, trasformare in valore azionario monete da 200 yen a prescindere dal sesso del loro precedente proprietario. Non per nulla il suo sequel non è Pac-Man 2, ma Ms. Pac-Man. Icona molto difficile da sessualizzare, al netto della solita Rule 34 (e di un vecchio episodio di Scrubs).
Allo stesso modo, Aloy non è mai stata intesa come premio. Non è coinvolta in nessun intreccio romantico, nonostante sia la protagonista di un gioco che si rifà a The Witcher 3. Veste abiti che mostrano sempre poco e non ammicca mai al giocatore rompendo la quarta parete, come invece faceva Lara. Anche esteticamente è una bellezza plausibile, una ragazza della porta accanto coerente con il mondo in cui Guerrilla l’ha inserita.
ALOY NON È UN PREMIO, NEANCHE VISIVAMENTE, PIÙ VICINA ALLA RAGAZZA DELLA PORTA ACCANTO CHE NON ALLE BELLEZZE IRREALISTICHE DI ALTRI VIDEOGIOCHI