Fin dai loro albori, una parte importante dei videogiochi è stata dominata dalla presenza della guerra o, se non altro, da un qualche tipo di conflitto violento: ammazzare nemici a decine, centinaia non è certo evento raro, per noi videogiocatori. Ma perché?
Faccio subito esercizio di maniavantismo e spiego che la mia intenzione, con questo editoriale, non è fare il moralista e dirvi che siete persone brutte se giocate a Call of Duty. Anche perché sarebbe un bel po’ ipocrita da parte mia, visto il tempo che ho speso fra Battlefield, Company of Heroes e tanti altri giochi che comportano conflitti e guerre su scale di vario tipo. Per casualità, la guerra ha a che fare anche con la mia vita al di fuori delle colonne di The Games Machine. Non pensate strano, non sono un mercenario né un reporter di guerra, ma una semplice guida: le guerre con cui ho a che fare io sono quelle del passato, e qualche giorno fa mi è capitato di portare una coppia oltre la mezza età a visitare una vecchia fortezza. Come spesso capita, la parentesi storica si è poi chiusa con una bella chiacchierata, e con il signore che mi ha confidato come secondo lui la guerra dovrebbe diventare argomento tabù, così da assicurare che divenga solo un ricordo.
CONFLITTI INTERNI, ESTERNI, PER PROCURA, CONFLITTI OVUNQUE
Ora, il discorso in questione è un po’ più complicato di quello che sembra e non vorrei divagare più del necessario, per cui mi riallaccio subito al soggetto di questo editoriale dicendo che fra le varie cose che mi sono venute in mente al sentire quelle parole c’è stato anche il tempo che io ho trascorso a giocare a videogiochi in cui la guerra è il tema principale. E da lì qualche riflessione è sorta. Anche perché, insomma, pensateci: se arrivasse qualcuno a chiedervi “riesci a consigliarmi qualche gioco non violento?”, sono sicuro che vi verrebbero in mente un sacco di bei giochi tipo Chicory: A Colorful Tale, Animal Crossing, Celeste, Life is Strange, Stardew Valley, i giochi di golf che piacciono tanto a Stefano… ma allo stesso tempo dovreste escludere tipo l’80 o il 90 per cento dei giochi in circolazione. E se è così, se ne deduce che evidentemente avviare i videogiochi e passare un’ora o due a prendere a botte qualcosa ci piace assai.
Dal punto di vista per così dire produttivo, secondo me il perché è relativamente semplice: uno dei modi migliori di offrire coinvolgimento è presentare un conflitto, un ostacolo che il protagonista si deve trovare a superare – e questo vale un po’ per tutto, i videogiochi certo, ma anche film e libri: se il buon Zeno non avesse avuto nessun problema, quel volume su lui che deve smettere di fumare ma non ne ha mica tanta voglia non sarebbe mai stato scritto. Gli ostacoli, naturalmente, possono essere di tanti tipi. L’esempio appena citato usa un vizio personale per dare il via alle sue vicende, ma quello dell’introspezione interiore non è un sentiero facile, a livello narrativo.
AFFRONTARE UN NEMICO IN CARNE ED OSSA È CONCETTUALMENTE PIÙ SEMPLICE CHE NON DOVER GESTIRE UN CONFLITTO INTERIORE
GUERRA VIDEOLUDICA, PURIFICAZIONE INTERIORE?
Ora, se abbiamo trovato una risposta al perché la violenza (che può essere di vari tipi e livelli, eh: c’è Mortal Kombat dove stacchi la spina dorsale alla gente, c’è Pokémon dove combatti con i mostriciattoli, e c’è CrossCode dove prendi a cartoni pucciosi ammassi di pixel, cioè, proprio a livello narrativo; sempre di fare a botte si tratta, però) sia un espediente così comune nei videogiochi, credo che ci sia una domanda che vale la pena farsi a un altro livello, e cioè quella che sta in cima a questo articolo: ma di preciso perché la guerra, il conflitto, il combattimento in generale ci piacciono così tanto?
giocare alla guerra è indubbiamente divertente, ma c’è dell’altro sotto
Spero che mi perdonerete se per rispondere a questa domanda faccio un’altra parentesi, questa volta lanciandomi a capofitto del mondo dei fumetti. Qualche anno fa ho recuperato tutto Punisher MAX di Garth Ennis; credo che più o meno tutti sappiano che Frank Castle, in arte Punisher, è un personaggio Marvel che va in giro ad ammazzare i criminali, distinguendosi nettamente da eroi molto più “puliti” tipo Spider-Man o Capitan America. La serie in questione, però, è particolarmente violenta – c’è una scena in cui Frank appende le interiora di un trafficante di esseri umani ai rami di un albero, il tutto mentre quest’ultimo è ancora vivo, beninteso – anche per gli standard del Punitore. Ma Garth Ennis non è solo un amante della violenza, è anche uno scrittore molto sveglio: qui e lì sparge dettagli che ci fanno capire che Frank Castle non è assolutamente un eroe, e che considerarlo uno dei “buoni” sarebbe un errore. Le poche persone effettivamente “buone” che incontra sono terrorizzate da lui, lo temono, o lo disprezzano. Lui stesso si rende conto di essersi messo lungo una strada da cui non c’è scampo né dalla quale si può tornare indietro, e questa cosa viene messa in chiaro in maniera potentissima dal monologo interiore alla fine di Long Cold Dark:
The sun slipped away behind me, the last sliver seeming to pause on the horizon, then succumbing to the black. And on I drove through the shadows. through the long, cold, dark night that I’ve made of my life
NON SOLO GLORIOSI EROI
Certo, sarebbe ingiusto chiudere questo discorso senza sottolineare anche che ci sono giochi in cui la guerra è il tema centrale, ma la questione dell’eroismo passa in secondo piano. Quanti fra quelli che stanno leggendo staranno pensando a This War of Mine, in cui il ruolo che ci viene affidato non è quello di impavidi combattenti di prima linea o di esperti generali di brigata, ma di civili alla disperata ricerca di un modo di sopravvivere fra le macerie lasciate dai combattimenti? Tema che tra l’altro non può evitare di sembrare molto attuale, in questi giorni in cui la guerra popola le prime pagine di tanti giornali (ma che non è mai troppo lontana anche quando non se ne parla nei talk show, eh), e che 11 bit studios ci ha permesso di affrontare a modo suo, lasciando il segno nelle menti di molti giocatori. E c’è poi chi sul tema dell’eroismo ci gioca per poi rigirarlo come un calzino. Se state pensando a Spec Ops: The Line avete pensato giusto, d’altronde lo sparatutto di Yager è un po’ menzione obbligata quando si arriva su questo tema; un gioco che inizia come un qualunque FPS militaristico che vede gli americani arrivare in un generico paese mediorientale (in questo caso è Dubai, ma poteva essere cento altri posti, l’importante è che ci sia la sabbia e i tizi che parlano arabo, letteralmente o figurativamente) e che andando avanti ci rende conto del fatto che l’approccio “prima sparo e poi domando, tanto sono nel giusto” non porta sempre a buoni risultati; anzi, in questo caso porta a risvolti pure un bel po’ drammatici. Peccato che Yager poi sia passata a tutt’altro, ma se vi è piaciuto il suo approccio narrativo date un’occhiata anche a Through the Darkest of Times, che nasce dall’idea di due veterani del sopracitato studio tedesco.
Non credo che il tema della guerra – e tutte le sue declinazioni su scala più piccola, fino ad arrivare alla rissa da strada – debba diventare un tabù. Credo che parlarne, parlarne tanto e approfonditamente, sia il modo giusto per assicurarsi che tutti sappiano bene quali orrori comporta. Credo che sia giusto scriverne libri, girarne film, comporre canzoni. E, visto quanto possono essere un potente mezzo comunicativo i videogiochi, credo che sia giusto anche giocarla. Sempre con un minimo di occhio critico, mi raccomando.