The Legend Of Zelda e la ricerca del gioco “totale” – Editoriale

Giusto una settimana fa chiudevo un viaggio durato un mese (e passa) nelle terre (e cieli e sotterranei) di Hyrule in The Legend Of Zelda: Tears of the Kingdom per un totale di centotrenta ore circa e una quantità indefinita di momenti che mi porterò dietro probabilmente per sempre. Vuoi per come sono portato a vivere i videogiochi, vuoi per lo stupore di vedere, ancora una volta, reinventare la ruota davanti ai miei occhi di giocatore navigato e vorace, ma a tessere le lodi dell’opera Nintendo ci ha già pensato il nostro DanHero nella sua recensione, che ve lo dico a fare.

Qui preferisco concentrarmi su una cosa che ho pensato costantemente: mentre giocavo a The Legend of Zelda: Tears of the Kingdom – praticamente ovunque e in ogni momento libero della giornata. Nel suo stratificare e amalgamare concetti di game design, integrandoli poi col mondo di gioco, a livello narrativo, geografico e spaziale, si viene a creare un’esperienza “totale”, capace di diventare un’avventura tascabile praticamente perfetta nella gestione dei tempi e, soprattutto, nel rispetto dei tempi del giocatore. La divisione del mondo in tre aree verticali, già dopo qualche ora, dà un’idea di quello che il gioco vuole fare.

UN MONDO IMMENSO TUTTO DA VIVERE E CONOSERE

Cielo: piccole avventure circoscritte alle varie isolette fluttuanti, originali e ingegnose. Superficie: missioni principali, estrema varietà, adatte per sessioni medie o medio-lunghe. Sottosuolo: lunghe esplorazioni alla cieca, in punta di piedi, una sorta di open dungeon crawler. Dove voglio arrivare?

IL TEMPO È TUTTO ANCHE IN THE LEGEND OF ZELDA

Già nella sua macrostruttura il gioco è diviso in aree “tematiche”, non solo ambientali, ma strutturate in modo che il giocatore possa avere già in mente a cosa dedicarsi in base al tempo che ha a disposizione. Questo dà vita ad attività che hanno un sacco di sfumature intermedie tra piccole, medie e lunghe; il risultato è che io, spesso e volentieri, nella mezz’ora di pausa pranzo rimasta dopo aver mangiato, riuscivo a fare un sacrario, battere un mini-boss, esplorare una caverna e aiutare un Korogu a tornare dal suo amico, per fare solo uno dei tanti esempi e combinazioni che potrei raccontare. Rispetto a The Legend Of Zelda: Breath of the Wild, che respirava molto di più e lasciava spazi consciamente “vuoti”, Tears of the Kingdom racchiude in un raggio di cento metri un numero di punti di interesse notevole, e questo ogni cento metri, per una mappa che si estende a perdita d’occhio tanto in verticale quanto in orizzontale, senza caricamenti evidenti (teletrasporti a parte), con una facilità di navigazione fantastica e una libertà di approccio assoluta.

Proprio la libertà espressa tanto attraverso il girovagare allo stesso modo dei nuovi poteri di creazione e manipolazione, dimostrano quanto una Nintendo ormai tacciata di atteggiamenti ostinati e contrari rispetto al mercato, abbia tenuto invece in grande considerazione quelli che sono i fenomeni pop videoludici contemporanei.

C’è della magia in tutta questa e immensa Hyrule

Da Fortnite a Minecraft a GTA Online, prestandosi consciamente a diventare meme, tiktokabile (sui social quante clip di TOTK avete visto nell’ultimo mese?), con tanto di articoli specifici sulla stampa generalista, talmente ricco di possibilità per i giocatori più ingegnosi da scoprire ancora meccaniche, trucchetti o semplici genialate pur con centinaia di ore sul groppone.

TUTTE LE SFUMATURE

È anche un’opera che, a livello umano, riesce a replicare i meccanismi tornati consuetudine con Dark Souls, dove il confronto con altri giocatori diventa elemento socio-ludico fondamentale, riempie “vuoti” e va a completare l’esperienza con consigli, dritte, “ma sai che se vai là trovi quella roba lì incredibile”, complice anche il fatto che praticamente nessuno affronta il gioco allo stesso modo.

È come se l’esperienza fosse capace di rigenerarsi costantemente, metanarrativa, trasversale, capace di evolvere il concetto di neverending-adventure che è stata la chiave del successo di Bethesda e, in particolare, di The Elder Scrolls.

Un capitolo più grnande, intenso e particolareggiato sotto ogni punto di vista

Il prezzo da pagare è probabilmente quello di essere meno evocativo (nonostante certe sequenze emotivamente carichissime ci siano eccome), più denso ed elegantemente giocattoloso, più “divertente” si potrebbe prosaicamente dire, rispetto al capitolo precedente, col plus di avere così anche due esperienze, nella pratica, molto più diverse di quanto ci si ricordi, ma è soprattutto un’opera incredibilmente moderna, che compensa un lato tecnico problematico e fondamentalmente agée, con una capacità straordinaria di essere assorbita dal proprio stile di vita, dedicata potenzialmente a tutti.

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