La molto onorevole Morag Tong

La molto onorevole Morag Tong Editoriale 01Sta per tornare Morrowind – in versione on-line, naturalmente – e la Morag Tong, ancora una volta, pare ritagliarsi lo spazio che le spetta di diritto. Facciamo un passo indietro, al 2002. Le tre grandi casate degli elfi scuri, che detengono il potere economico e politico nell’isola di Vvardenfell, ricorrono sovente all’omicidio per rimuovere un oppositore o un rivale in affari. La legge, tuttavia, è cosa seria nella ridente provincia di Morrowind: la teocrazia vigente, congiuntamente all’autorità imperiale, esige la presenza di templari e legionari che pattugliano strade e città, pronti a contrastare qualsivoglia crimine.

Per regolamentare l’empio mercimonio troviamo dunque la Morag Tong: una gilda degli assassini perfettamente legale, tanto che le sedi ufficiali fanno mostra di sé nelle principali piazze delle maggiori città. Gli interni, lussuosi e confortevoli, sono arredati con gusto e decorati con la piacevolezza di una sala da tè; il personale è sempre cordiale, sicché anche il giocatore animato da retti principi risulta invogliato ad affiliarsi, vuoi per una ricerca del benessere (sempre indispensabile nei mondi RPG, al fine di procurarsi un equipaggiamento migliore), ma soprattutto incentivato da una sentita questione morale. L’utilità “sociale” della Morag Tong, nel contesto di gioco, risulta ben evidente: omicidi mirati evitano spargimenti di sangue tra la popolazione innocente e impediscono alle faide interne di degenerare in conflitti su larga scala. Inoltre, esibire alle guardie l’onorevole contratto della Morag Tong – che, ribadisco, è assolutamente legale – pone il giocatore al riparo da ogni ritorsione.

La molto onorevole Morag Tong Editoriale 02

Il giocatore è sempre innocente, poiché si limita a premere dei tasti

Se non amate in particolar modo gli universi fantasy, e preferite invece farvi possedere dal demone della velocità come Carl Johnson, l’affabile protagonista di Grand Theft Auto: San Andreas, all’ordine del giorno troverete pirotecnici furti d’auto, frizzanti sparatorie e “onorevoli” regolamenti di conti fra gang rivali. Al di là dei gusti personali, credo che la possibilità di commettere atti illeciti in ambito videoludico contribuisca ad arricchire il fun factor, nondimeno è opportuno ricordare come queste siano proprio quelle “amene” attività per cui il giocatore viene spesso identificato come un sociopatico, un serial killer in potenza pronto a scatenare l’inferno sul prossimo raduno dell’oratorio di quartiere.

La domanda che da anni toglie il sonno ai benpensanti è, pressappoco, la seguente: il giocatore non rischia di affezionarsi al proprio avatar, spesso monocromatico, decisamente estremo nelle sue espressioni, assorbendo dei valori morali distorti? Il quesito, a mio vedere, è mal posto: se, per esempio, CJ guida senza casco, impreca ogni tre parole e mangia cibi grassi ai fast food, cosa dobbiamo desumere? La sua figura “carismatica” rischia di fungere da modello, oppure è il risultato di una ricerca mirata a creare un avatar con cui una “ribelle” gioventù possa meglio identificarsi per rassomiglianza? La risposta mi pare scontata, pertanto concludo affermando che è la realtà a influenzare i videogiochi e non viceversa. Questi ultimi rappresentano unicamente uno specchio, talvolta scuro, della prima, da cui attingono elementi per creare scogli di sogno virtuali in cui il giocatore – sempre innocente, poiché si limita a premere dei tasti – muove i suoi incorporei passi. Buon “omicidio” a tutti!

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