Il cervello è tornato al centro del gameplay - L'Opinione

Vi ricordate qualche anno fa, quando il leit motiv attorno al videogioco (soprattutto quello AAA) era tutto un “i giochi sono diventati troppo facili”, “si giocano da soli” ecc ecc. Poi è arrivato Demon’s Souls e sappiamo com’è girato il vento, ma, nel frattempo, c’è stata un’altra rivoluzione negli ultimi anni, più silenziosa magari, ma capace di rimettere al centro le abilità, in questo caso cerebrali, dei giocatori. Da démodé a protagonista, il puzzle game, in tutte le sue forme (dall’arcade all’adventure, fino agli elementi di gameplay inseriti in altri generi), è tornato al centro del villaggio videoludico.

L’ultima opera di Simogo, Lorelei and the Laser Eyes è solo l’ultimo esempio di un’evoluzione che ha portato al genere idee, spettacolo, valori produttivi e strutture narrative assolutamente degne di nota. Un’opera che gioca col concetto stesso di videogioco come forma d’arte, lasciando aperto il dibattito ma schierandosi apertamente, sciogliendo al contempo le sinapsi dei giocatori, minuto dopo minuto. Ma questa è un’evoluzione costruita negli anni da titoli di altissimo livello che hanno creato una cultura e un’allure attorno al genere.

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Dall’esistenzialismo di The Talos Principle (e seguito), precursore di questa nouvelle vague del puzzle game, coi i suoi enigmi fisici, atavici, arcaici, passando per l’esoterico investigativo The Return of the Obra Dinn, firmato Lucas Pope,  per arrivare alla misteriosa isola di The Witness, capolavoro di Jonathan Blow (già autore di Braid, rilanciato di recente sul mercato), tra colori, misteri e un gameplay clamoroso, dove ogni enigma è il tassello di un vero e proprio linguaggio, con quella galvanizzante sensazione di stare imparando un nuovo codice, sbloccando aree del cervello che non si credeva neanche di avere. Cito le opere di 3 dei più talentuosi team/designer su piazza perché sono proprio la cartina di tornasole della nuova era d’oro del genere, scelto sempre più spesso dai creativi per sfidarsi e sfidarci.

CLASSICI REINVENTATI E AVVENTURE ENIGMISTICHE

Una varietà e qualità mai vista, in un contesto dove pure una delle IP più iconiche del videogioco, Tetris, riesce a reinventarsi concedendosi al genio di Tetsuya Mizuguchi. Tetris Effect è il puzzle “classico” perfetto, sinestesico, ringiovanito come fosse (ri)nato nel 2018. Un’esperienza arcade dalla forte componente artistica, come Humanity, a metà tra Lemmings e un’installazione interattiva, metaforico, ironico e divertentissimo. Ma prendiamola pure larga; anche in titoli non espressamente “puzzle” il concetto di enigma si è evoluto ed è diventato sempre più importante e pervasivo. Basti pensare agli ultimi Zelda, con i sacrari a recitare il ruolo di veri e propri rompicapi, compressi in piccole aree che poco hanno a che fare con l’ampio respiro della nuova Hyrule.

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Attraverso il ragionamento il giocatore viene premiato, tanto con la progressione e i segreti, quanto dal più intimo senso di soddisfazione, scartando l’idea di design come un cioccolatino per poi assaporarlo, mai sazio e subito pronto al prossimo gusto, alla prossima sorpresa. È proprio il concetto di sorpresa, infatti, quello che lega 3 puzzle adventure cult, partendo dal neoclassico Fez per arrivare ai suoi recenti eredi: Tunic e il freschissimo Animal Well, che dietro la struttura da metroidvania celano un macro-enigma da sviscerare e in cui perdersi, confrontandosi con altri giocatori e lasciandosi suggestionare da dettagli che non sono mai messi li per caso.

PALESTRA CEREBRALE

È sinceramente una goduria vedere come l’enigmistica videoludica abbia trovato il modo di insinuarsi un po’ ovunque, prendendo anche forma ibride e inaspettate, facendo si che l’amalgama di gameplay diventi meno prevedibile, più manuale, ragionata, tangibile perché, se un’opera prende la testa, ha già fatto gran parte del suo dovere, quello di trascinarci in un altro mondo. Qualche editoriale fa ho citato Botany Manor parlando di cozy games, ma è anche un grande esempio di puzzle game mascherato da altro, dove l’esplorazione rilassata e la raccolta di materiale scritto sono il preludio all’enigma vero e proprio, ovvero “cosa devo fare per far crescere questi fiori?”.

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Ma anche Chants of Sennaar, che distrattamente si potrebbe catalogare come avventura grafica, in realtà è un elegante puzzle linguistico dove scoprire, ipotizzare, apprendere e usare in modo diplomatico le lingue dei popoli babilonici, scalando la torre per risolvere divergenze e incomprensioni secolari. Potrei riempire queste pagine con altre decine di esempi virtuosi ma, il senso ultimo del discorso, è che gli sviluppatori si sono ormai resi conto di quanto sia importante il coinvolgimento cerebrale dei giocatori e di quanto, lavorando su questo aspetto, si possa creare una connessione forte e duratura; mai passivi, sempre al centro dell’opera, come una chiave senza la quale il gameplay non può aprirsi e svelare i suoi tesori migliori. Siamo nel pieno della neo-enigmistica.

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