Elden Ring: l’open world tra meraviglia e iterazione — Parte 2

Nella prima parte abbiamo trattato dei modi in cui l’open world di Elden Ring riesce a meravigliare il giocatore, distinguendosi dal grosso dei titoli di questo tipo in circolazione. In altri aspetti, l’opera di From Software è forse ben più ordinaria di quanto sembri.

Elden Ring Open World

Bene, dopo il profluvio di meritatissimi elogi al world design, alla gestione dell’esplorazione, alla capacità di stupire e alla capacità di spingere il giocatore a intrattenere un rapporto attivo con il mondo di gioco, è il momento di parlare degli elementi in cui Elden Ring forse non riesce del tutto a smarcarsi da quelli che sono i limiti di molti open world contemporanei. D’altra parte si sa, la coperta è sempre corta, e da qualche parte la si dovrà pur tirare.

UN INTERREGNO NON SENZA DIFETTI

Una critica frequentemente mossa agli open world moderni è relativa al cosiddetto “bloat”, quella tendenza a creare mondi di gioco sempre più (inutilmente) vasti, per giustificare claim di marketing spesso basati proprio sull’enorme mole di contenuti e ore di gioco. Un modo, in fin dei conti, per giustificare l’esborso monetario non indifferente attraverso un intuitivo calcolo del “costo medio” per ogni ora di gioco. Un tipo di ragionamento purtroppo abbastanza diffuso, che rappresenta il trionfo della quantità sulla qualità e della concezione di videogioco come prodotto di consumo.

Chiaramente il problema non sta nella vastità del mondo di gioco in sé e per sé, né nella quantità di contenuti e di ore di gioco, ma nel modo in cui questi elementi sono giustificati (o meno) all’interno dell’economia complessiva del game design. Molto spesso negli open world l’immensità delle mappe non è affatto giustificata dai contenuti proposti, che tendono a essere fortemente ripetitivi, se non proprio copiancollati, e la cui quantità è raramente correlata alla qualità. Questo modello presenta ovvi vantaggi per le case di sviluppo, che possono creare contenuti “in serie” con uno sforzo minore.

ELDEN RING RIESCE ABILMENTE A SCHIVARE IL FEELING “DA CHECKLIST”, MA LA RIPETIZIONE DEI CONTENUTI C’È E SI FA SENTIRE

L’esperienza complessiva rischia spesso di risultarne però appesantita, specialmente considerando che la mole di contenuti unita alla presenza estensiva di indicatori tende a incentivare una mentalità “checklist” nei giocatori, per cui le attività diventano delle mere caselle da spuntare per arrivare al completamento. Elden Ring, come spiegato nella prima parte, riesce generalmente a evitare il feeling da checklist giostrando le informazioni messe a disposizione al giocatore, in modo da tenere alta l’attenzione e incentivando un’esplorazione più attiva e meno meccanica.
L’opera di From Software inoltre non presenta i classici accampamenti da liberare, né torri da scalare per rivelare le attività sulla mappa. D’altro canto però non è neanche difficile notare la presenza di un numero limitato di strutture ed elementi che tendono a ripetersi (anche in termini di asset) con qualche variazione: le rovine con sotterranei, le torri magiche, i dungeon secondari a loro volta divisi in tipologie (catacombe, caverne, miniere) con strutture simili e asset ripetuti.

Elden Ring Open World

Dove l’ho già visto?

Questi “blocchi iterati”, come giustamente ha di recente argomentato Damaso Scibetta in altra sede, hanno lo scopo di dare una struttura al giocatore, una forma di prevedibilità che gli consenta di acquisire sempre maggior padronanza, dandogli in questo modo anche indizi su eventuali segreti: se ad esempio il gioco ci ha insegnato che ogni rovina ha un sotterraneo, il giocatore attento continuerà a cercarlo anche nel caso in cui non sia immediatamente visibile, proprio perché sa che deve esserci. D’altronde una certa dose di ripetizione è insita nella struttura stessa della maggior parte dei videogiochi: che si tratti di un sistema di combattimento, dell’orientamento spaziale in una mappa o di una serie di enigmi, è attraverso la ripetizione che si sviluppa la familiarità, e quindi una progressiva sensazione di controllo e soddisfazione.

L’altro lato della medaglia è che la ripetizione eccessiva di uno stimolo, con poca o nessuna variazione, tende naturalmente a ridurne l’impatto nel tempo. In Elden Ring in particolare la fortissima iterazione tende alla lunga a remare contro a tutte le belle cose dette sulla capacità del gioco di sorprendere e meravigliare: banalmente, dopo 80, 100 o 120 ore è molto difficile risultare meravigliati davanti all’ennesima rovina con in fondo un baule (o un boss E un baule), all’ennesima torre magica con entrata sigillata, all’ennesima catacomba o caverna. E non sempre è abbastanza per controbilanciare che ci sia una qualche minima variazione strutturale che renda il dungeon a suo modo unico.

La ripetizione genera prevedibilità e consuetudine, rompendo la magia e depotenziando progressivamente il fascino dell’esplorazione del pur magnifico mondo di gioco. A maggior ragione perché spesso insieme alle strutture a ripetersi sono i nemici, o peggio i boss. Ormai è il segreto di Pulcinella che Elden Ring presenti un grosso problema di riciclo delle boss fight, ma è un altro elemento che va messo in conto quando si spiega il motivo per cui è difficile entusiasmarsi quando si arriva alla nebbia di un dungeon secondario, sapendo che probabilmente dall’altro lato ci aspetta un boss che già abbiamo affrontato, magari più di una volta (non so quante volte si affronti l’Albero Ulcerato, ma credo una buona dozzina, ed è pure un boss pessimo di per sé [NdR: nove volte; è il boss più ripetuto dell’intero gioco, mannaggia a Miyazaki]). Basti pensare che degli oltre 100 boss e mini-boss presenti nel gioco, solo 9 non vengono ripetuti almeno una volta.

Persino un boss importante come Astel non è sfuggito alla mannaia dei doppioni.

O si pensi ai combattimenti con i draghi: il primo inaspettato incontro con Agheel è plausibilmente uno dei momenti più memorabili dei primi passi nell’Interregno per molti giocatori, mentre difficilmente può colpire o restare impresso uno dei successivi sette-otto lucertoloni (tutti con moveset sostanzialmente identici). Certo, alcuni dungeon fanno eccezione offrendo sorprese interessanti, elementi di lore rivelatori (il pregio della narrazione di From del resto è che basta anche solo il piazzamento di questo o quel nemico in un contesto a svelare qualcosa di più), reward utili per la propria build e quant’altro. Il problema è che ovviamente, vista la fin qui elogiata mancanza di guida esplicita, non c’è mai modo di saperlo preventivamente, ergo il giocatore può sapere se un’attività è realmente di un qualche valore solo dopo averla portata a termine.

AFFRONTARE UN DUNGEON NON PARTICOLARMENTE INTERESSANTE E PER DI PIÙ TROVARE QUALCOSA CHE NON CI SERVE NON È UNA BELLA SENSAZIONE

La notevole quantità di possibilità e approcci diversi inoltre fa sì che ci sia per ogni build un enorme numero di reward assolutamente inutili, in quanto dedicati ad altre tipologie di personaggi. Non è raro, specialmente per chi per motivi di preferenza o ruolistici non è propenso a respeccare costantemente il personaggio per provare nuove cose, completare intere aree opzionali senza ottenere granché di utile alla propria build.

Se si mettono insieme tutti questi fattori si ottiene una larga sacca di contenuti che, specialmente nelle fasi avanzate dell’avventura, rischiano di risultare strutturalmente ripetitivi, riempiti di nemici e boss già visti e che non danno neanche ricompense interessanti, ma che il giocatore è portato comunque a completare nella speranza che nascondano sorprese o elementi utili. Non a caso nella mia seconda partita ho finito con l’evitare la stragrande maggioranza dei contenuti di questo tipo, senza che questo abbia detratto granché dall’esperienza, anzi.

Alcuni dungeon secondari nascondono segreti non da poco, ma sono una minoranza.

Chiaro, come detto la coperta è corta: probabilmente non è neanche giusto pretendere un mondo di gioco vastissimo, dal world design estremamente curato, arricchito da dungeon principali notevolmente complessi e soddisfacenti e al tempo stesso ricolmo di attività secondarie tutte uniche, variegate e senza ripetizioni. D’altra parte se è vero che agli open world viene spesso imputato di gonfiare inutilmente le dimensioni del mondo di gioco senza avere poi le risorse o le idee per riempirli con contenuti validi, non mi sento di dire che Elden Ring sia riuscito a evitare del tutto questa trappola. Certo, la notevole estensione dell’Interregno gioca a favore di quel senso di meraviglia che l’opera vuole spesso suscitare. Forse, però, sarebbe stato meglio ridurne un pochino la portata, curando maggiormente il modo in cui questo splendido mondo è stato riempito, perché non sempre gli fa giustizia.

Elden Ring ha tanti punti di eccellenza, in tanti aspetti va ben oltre ciò a cui la stragrande maggioranza degli open world ci ha abituato, si spera possa fare scuola. E l’open world ha dato tanto a Elden Ring, permettendo un respiro inedito per le avventure From e un modo per le straordinarie capacità dello studio in ambito di level e world design di brillare ulteriormente. Se però il futuro di From Software sarà open world, credo si debba anche imparare dagli errori, per far sì che l’iterazione non attenui mai la meraviglia.


Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.

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