Uno dei primi regali inattesi di quest’anno me lo ha fatto (del tutto inconsapevolmente) Gareth Damian Martin, sviluppatore unico al centro dello studio Jump Over the Age, con il suo Citizen Sleeper. Mi ci sono imbattuto quasi per caso, sfogliando il catalogo Game Pass su Xbox Series S, ma è stato in grado di assorbire la mia attenzione completamente, emozionarmi assolutamente più del previsto al raggiungimento dei titoli di coda e dare il via a una serie di letture e riflessioni che, nel corso delle settimane, hanno assunto la forma dell’articolo che state leggendo.
In questa intervista per Eurogamer (che vi consiglio di ascoltare, se masticate a sufficienza l’inglese), l’autore di Citizen Sleeper ha accennato alla pluralità di temi che il gioco riesce ad affrontare, pur in un tempo sorprendentemente breve. Nel mio caso, la riflessione sul tempo e sulla sua mercificazione nella realtà capitalista (e post-capitalista) è diventata ben presto il cuore della mia esperienza di gioco.
IL PESO DEL TEMPO
Citizen Sleeper, nella sua qualità di gioco di ruolo (con meccaniche, semplificate, da survival) puramente narrativo, permette infatti di addentrarsi e spulciare aspetti diversi dell’avventura a seconda delle scelte prese durante il percorso. Si interpreta uno sleeper, un essere artificiale in cui è stata impiantata la coscienza di un essere umano (consenziente) che, in fuga dalla corporazione che l’ha creato, si ritrova su una stazione spaziale in rovina, in cui una moltitudine di persone cerca di sopravvivere nonostante le avversità. Il giocatore, per ogni giorno (ciclo, qui, dato che nello spazio i movimenti del sole non sono un granché come punto di riferimento), ha a disposizione solo un certo numero di tiri di dado a sei facce, assegnati al momento del risveglio, da utilizzare come meglio crede per compiere le diverse azioni a sua disposizione. La priorità, fin dal primo minuto di gioco, è la sopravvivenza; solo in un secondo momento ci si può permettere di interrogarsi su cosa farne, di questa vita preservata con così tanta fatica. La domanda che nasce da questo meccanismo, che Citizen Sleeper riesce a ricostruire grazie al forte impatto simbolico degli elementi di gameplay: di quanto tempo abbiamo bisogno per sopravvivere, e quanto ne resta per trovare uno scopo?
“Those who are employed experience a distinction between their employer’s time and their ‘own’ time. And the employer must use the time of his labour, and see it is not wasted: not the task but the value of time when reduced to money is dominant. Time is now currency: it is not passed but spent”
“Chi ha un impiego sperimenta una distinzione tra il tempo del datore di lavoro e il ‘proprio’ tempo. E il datore di lavoro deve usare il tempo del proprio lavoro, e controllare che non venga sprecato: non è il valore dell’azione ma quello del tempo (quando si riduce a denaro) a essere dominante. Il tempo diventa una moneta: non passa ma viene speso.”
(E. P. Thompson, “Time, Work-Discipline, and Industrial Capitalism”, da “Past & Present”, Numero 38 [Dicembre 1967], pp. 56-97)
Sono le meccaniche, snelle, da survival che permettono ai cicli di Citizen Sleeper di far avvertire il peso del tempo come merce di scambio. All’arrivo sulla stazione spaziale, il protagonista si ritrova a corto di energie, di fonti di sostentamento, di monete di scambio; l’unica cosa che può fare è trovare qualcuno in grado di fornirgli del denaro in cambio del proprio tempo, speso in qualità di lavoratore. È lo stato di necessità a spingere lo sleeper verso le catene produttive della stazione; sono poi queste ultime a determinare il valore del suo tempo.
Si percepisce, in maniera distinta, il valore non assoluto del tempo, che cessa di essere un elemento dato – come il movimento delle maree o le fasi lunari – per diventare qualcosa di fluttuante, sulla quale gli uomini hanno (o desiderano avere) un controllo diretto. La vera sfida si tramuta quindi nel far sì che il proprio tempo acquisti sempre più valore di mercato.
DOPO I PIONIERI
“La regione orientale della Catena delle Cascate, un tempo fulcro della ricchezza legata a questa attività, si componeva ormai di foreste cedue e cittadine fantasma cresciute attorno alle segherie ormai ricoperte di sterpaglie.”
(Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo, p. 44)
Questo estratto si riferisce a vicende realmente accadute nel nostro mondo, nel nostro tempo. Il libro è stato una delle fonti di ispirazione di Citizen Sleeper; il suo sottotitolo, “la possibilità di vivere nelle rovine del capitalismo”, non a caso si ritrova sul sito ufficiale dello studio di sviluppo, rimodellato secondo necessità: roleplaying in the ruins of interplanetary capitalism, “gioco di ruolo nelle rovine del capitalismo interplanetario”.
L’Oregon, con le sue coste bagnate dall’Oceano Pacifico, è stato uno dei punti di arrivo della corsa verso ovest avvenuta nel nord America. Oltre a essere stata protagonista di occasionali corse all’oro, la regione deve la sua fortuna alla raccolta di legname: a oggi, lo stato è ancora il principale esportatore di legname, più di 60000 abitanti sono coinvolti nell’industria del legno e circa il 47% dell’intero territorio è considerato zona boschiva. Dopo la seconda guerra mondiale, con l’arrivo di strumenti più efficienti per la raccolta del legname, l’Oregon si ritrovò al centro di un nuovo boom economico. Il ritmo con il quale l’industria si mosse si rivelò fin troppo presto insostenibile per il ciclo naturale delle foreste; a partire dal 1989, sia lo stato che il governo federale furono costretti a correre ai ripari, imponendo limiti senza precedenti alla raccolta del legname. Molti stabilimenti vennero abbandonati. Molte società cominciarono a guardare altrove. Intere cittadine, create attorno a queste industrie, andarono in declino; di loro rimangono quasi solo scheletri e, a oggi, l’Oregon è lo stato americano che conta più città fantasma negli USA: si parla di oltre 200 centri abitati, spazzati via da eventi catastrofici oppure, più semplicemente, abbandonati e lasciati marcire. Sono queste le rovine del capitalismo a cui il libro fa riferimento.
La situazione, nello spazio di Citizen Sleeper, non è poi così diversa. La corporazione che gestiva la stazione spaziale Erlin’s eye al culmine del suo successo si è disgregata, lasciando dietro di sé un mondo in frantumi. Chi si è aggrappato al vuoto lasciato da quel sogno industriale continua a riciclare rottami e a costruire astronavi; chi ha a cuore la sopravvivenza di ciò che resta diventa una preda facile di quanti sono disposti a fare qualsiasi cosa pur di rimanere a galla, a guardare gli altri andare a fondo. C’è tutto quel che resta dopo il crollo del sogno del progresso, su Erlin’s eye: un’umanità variopinta, alla ricerca di qualcosa che vada a imitare quello che c’era prima, oppure di qualcosa di totalmente nuovo.
TEMPO AL TEMPO
Questo mondo alla deriva è anche una nuova speranza, per il protagonista. Ma Citizen Sleeper non apre le porte della stazione spaziale al giocatore come se si trattasse di un parco giochi a sua disposizione, tutt’altro; a seconda della scelta compiuta in fase di creazione del personaggio, che determina le (poche) caratteristiche di partenza, ci si trova costretti a far leva sulle proprie abilità – e sui pochi modi a disposizione di tradurle in denaro – per riuscire a sopravvivere. Citizen Sleeper fa un ottimo lavoro nel ricreare la sensazione opprimente che il tempo speso per acquisire le proprie competenze non possa più essere recuperato e che, volente o nolente, questa specializzazione – necessaria per la sopravvivenza in questa realtà, dove il lavoratore è forza-lavoro personificata – non faccia che indirizzarci verso un percorso senza vie di fuga secondarie. E quando questo percorso sfocia nell’illegalità, dove rifugiarsi? Certi percorsi, nel gioco, portano dritti tra le braccia di personaggi dalla dubbia morale; da lì, non esiste davvero una scelta se non andare avanti. O meglio, esiste: sono le circostanze a renderla sfocata, apparentemente impraticabile; il risultato, a conti fatti, non cambia.
UN NUOVO ORO BIANCO
“Se la storia si chiude con il degrado, perdiamo ogni speranza — o rivolgiamo la nostra attenzione ad altri luoghi in cui reiterare promesse e rovine.”
(Anna Lowenhaupt Tsing, Il fungo alla fine del mondo, p. 44)
Ma Citizen Sleeper non è solo una storia di declino e degrado; una volta mostrato il mondo di gioco, le sue rovine del capitalismo interplanetario, comincia immediatamente la riflessione sulle possibilità di vita al suo interno. Concentrarsi solo sulla fine significa non accettare l’esistenza di un’alternativa, mentre nella stazione spaziale Erlin’s eye l’umanità che resiste ha già trovato una risposta. La stessa che si celava in mezzo ai resti delle foreste dell’Oregon dopo lo sfruttamento intensivo dei decenni precedenti: i funghi.
Non dei funghi qualsiasi, ma dei matsutake – una prelibatezza molto ricercata nel mercato giapponese. Questa forma di vita dà l’idea di trovarsi tutto sommato bene, in mezzo alle rovine lasciate da noialtri esseri umani; nelle nuove foreste dell’Oregon, lontane come specie da quelle di un tempo, hanno trovato un buon habitat dove proliferare. Nascono molto bene alla base dei cosiddetti pini contorti, una specie che ha cominciato a proliferare, ironicamente, dopo che la tutela delle foreste nella regione aveva alterato equilibri naturali vecchi di secoli. Trattandosi di beni piuttosto rari, i matsutake vengono pagati bene. I cercatori, che formano nella regione una serie di micro-comunità dalle provenienze più disparate, immettono nel mercato globale questi prodotti attraverso intermediari, guadagnandosi da vivere grazie a esso ma rimanendo ai margini delle grandi catene produttive – soprattutto perché la raccolta dei funghi non va molto d’accordo con i sistemi di massimizzazione della produttività.
“The very idea of the ‘savage’ was constructed on the belief that to be fully human requires a rigorous separation of ritual and habit from the rhythms of nature.”
“L’idea stessa di ‘selvaggio’ è stata costruita sulla base della credenza che per essere del tutto umani fosse necessaria una separazione rigorosa dei riti e delle abitudini dai ritmi della natura.”
(Gareth Dale, “Davos and ‘capitalist time’”, https://theecologist.org/2019/jan/22/davos-and-capitalist-time)
La raccolta dei matsutake elude il rapporto col tempo tipico dell’industria moderna. Questa stessa funzione di rottura è stata ricostruita egregiamente in Citizen Sleeper: finché il giocatore non raggiunge l’area in cui si trova la comunità di cercatori di funghi, si è incatenati alla catena produttiva alla deriva della stazione di Erlin’s eye (scambiare tempo per denaro, denaro per sostentamento, accumulando per poter raggiungere una situazione in cui poter ottenere più denaro con lo stesso tempo). Una volta incontrata questa nuova realtà – che, è bene precisare, non è necessariamente più conveniente della precedente – questo meccanismo può essere messo in discussione: il tempo del lavoro e quello personale tornano a unirsi, seguendo il ritmo scandito dal nascere e crescere dei funghi.
Non si tratta di tracciare una linea netta tra bene e male: la particolarità dei matsutake, in Oregon come in questo spazio di fantasia, è la capacità di essere allo stesso tempo conseguenza e risposta di un certo sfruttamento passato del territorio. Lo dimostra il fatto che la raccolta dei funghi non è che una diramazione, nel percorso dello Sleeper nel gioco; la disparità in termini di convenienza tra i due modi di vivere il tempo – quello naturale, contrapposto a quello quotato sul mercato – permette anche a Citizen Sleeper di non cadere nella trappola delle facile critica idealizzata, fornendo un’idea (astratta ma a suo modo precisa) di quello a cui si rinuncia, abbracciando uno stile di vita come quello del cercatore (spaziale) di funghi.
Quello che importa non è quale sia il giusto modo di scandire e seguire il tempo, ma piuttosto la presa di coscienza in merito all’esistenza o, per meglio dire, alla persistenza di altri modi di percepire lo scorrere dei giorni. Citizen Sleeper crea una relazione di dipendenza apparentemente indissolubile tra tempo e denaro, prendendo buona parte delle sue ore di gioco per far sì che il giocatore la comprenda e la accetti, imparando a comportarsi di conseguenza; solo dopo offre a chi si trova dall’altra parte dello schermo l’opportunità di scardinare questa relazione, introducendo un’altra idea di tempo, di comunità e di vita.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.