In un singolare incrocio tra videogioco e talk show, Not for Broadcast è un’opera che vuole farci prendere decisioni difficili.
Nell’ultimo mese ho letto interessanti riflessioni su giochi che incontrano svariati media, tra fumetti e adattamenti da e verso il cinema. Dopotutto il videogioco è di per sè un incrocio di una moltitudine di arti e non basterebbe un’enciclopedia per parlare di tutti gli esperimenti che si sono fatti e che probabilmente si faranno al riguardo. Non avevo però visto arrivare l’incrocio tra videogioco e talk show. Questa sarebbe la mia definizione da una riga su che cos’è Not for Broadcast, sviluppato dal team britannico Notgames. Ed è una definizione assolutamente minimizzante perché questo è un gioco che non ha parenti stretti, se non, a mio parere, quel Papers, Please di Lucas Pope. Sto parlando puramente in termini di emozioni trasmesse, in quanto i due giochi non potrebbero essere stilisticamente più distanti.
il videogioco è di per sè un incrocio di una moltitudine di arti e non basterebbe un’enciclopedia per parlare di tutti gli esperimenti
Da un lato abbiamo la pixel art più minimalista, dall’altro ore e ore di girato con attori reali che vanno a toccare molti temi, dal dramma, al
cringe, al nudismo, al semplicemente surreale. Eppure trovo che i due giochi si incontrino in un punto ben preciso che andremo a vedere.
Ma iniziamo prima con il capire cos’è Not for Broadcast. Intendiamoci, nel 2023 ogni storia è già stata raccontata, ogni stile artistico già stato esplorato e ogni struttura videoludica già stata perlomeno sfiorata. Ciò che possiamo fare è rimescolare gli ingredienti in modo da ottenere un oggetto che si distingua dagli altri per la somma delle sue parti. E Not for Broadcast ci riesce. Proviamo quindi a “scomporlo” partendo dai vari cosa, come, dove, quando.
UN 1984 SURREALE
La situazione comincia quando nei panni di Alex, un addetto delle pulizie in una modesta stazione televisiva, arriviamo alla stanza dell’editing con l’intenzione di pulirla, finire il turno, timbrare il cartellino e andare a vivere la nostra vita. Il piano viene rovinato dalla telefonata del collega, appunto, addetto proprio a quella cabina di regia proprio durante quel turno. A causa di un problema non può venire a lavoro, però è disposto a guidarci telefonicamente, per filo e per segno, su cosa dobbiamo fare per mandare in onda una decente edizione serale del programma.
NEL TUTORIAL, DOVREMO GESTIRE LE CAMERE DI UN INNOCUO PROGRAMMA SERALE. NON SARÀ SEMPRE COSÌ SEMPLICE
Ci chiede quindi di caricare le VHS con gli stacchi pubblicitari, di mettere in ordine la workstation, di tenere d’occhio frequenza e amplitudine e a show iniziato, di selezionare la telecamera più adatta. Il conduttore del programma è molto amato dal pubblico e a prescindere da cosa dice, quando parla è meglio tenere il primo piano puntato su di lui. Quando vi sono ospiti in studio meglio invece passare alla camera 3 che riprende tutti i divanetti,
facendo sempre attenzione a concentrarci sui momenti emozionali, passando i primi piani tra tutti i presenti. Avremo sempre in vista la barra dello share, che ci indicherà quanto gli spettatori gradiscono lo show e quindi quanto stiamo agendo correttamente. Sopravvissuti alla prima serata, scopriremo che il collega non ha proprio nessuna intenzione di tornare e ci ritroveremo promossi a regista. Ma al di là del pubblico affezionato e dei soliti volti familiari a condurre la trasmissione, ci sarà ben altro.
Non si tratterà sempre dell’innocuo telegiornale della sera.
È periodo di elezioni e il canale deve ovviamente coprire ogni notizia, intervista, pettegolezzo e scandalo circondante i candidati e man mano che la campagna procede inizieranno ad accadere strane eventi. Scopriremo che il paese fittizio in cui ci troviamo non è esattamente una democrazia funzionale, anzi. Più la storia procede settimana dopo settimana più la scopriremo come una versione surreale di una distopia Orwelliana. Ci ritroveremo a mandare in onda interviste dovendo decidere chi tra i presenti valorizzare con i primi piani, o introdurre una notizia dovendo scegliere con quale fotografia farlo.
IL NOSTRO RUOLO CI IMPORREBBE DI ESSERE OGGETTIVI, MA LA REALTA È BEN DIVERSA
Il nostro ruolo ci imporrebbe di essere oggettivi e mandare in onda solo i fatti, ma qui è dove il gioco ci mette davanti a una situazione reale: abbiamo un parere positivo o negativo su una figura pubblica e abbiamo la possibilità di valorizzarla con una bella foto professionale oppure con una molto più “acqua e sapone”, quando non di ridicolizzarla con una foto da paparazzi presa durante un momento imbarazzante. Avremo le istruzioni dal direttore di non dare spazio a un bizzarro movimento di attivisti nudisti e potremo scegliere di obbedire in cambio di prospettive di carriera o dare spazio anche a loro. Supporteremo un inviato a una importante finale di un campionato sportivo dal bizzarro regolamento. Manderemo in onda la prima visione di uno spettacolo teatrale tra il surreale e l’imbarazzante. La lista può andare avanti a lungo, ma vi basti sapere che la narrazione di questo gioco e la brillante recitazione degli attori ci daranno modo di comprendere nel dettaglio la cultura, le tradizioni e lo stile di vita della nazione fittizia in cui vive il protagonista.
Not for Broadcast si muove agilmente tra il dramma distopico classico e il british black humour in un setting certamente insolito, ma facile da interpretare.
E INSOLITA È ANCHE L’INTERFACCIA
Man mano che la vicenda procede la workstation si arricchirà di nuove funzioni e da giocatori diventeremo sempre più abili a usarla e a sfruttare quei pochi secondi di anteprima che intercorrono tra le riprese in tempo reale e la messa in onda in TV che vedremo nei nostri schermi.
Man mano che la vicenda procede la workstation si arricchirà di nuove funzioni e da giocatori diventeremo sempre più abili a usarla
Durante gli stacchi pubblicitari potremo ad esempio tenere l’audio dello studio acceso in modo da sentire i commenti off-camera, che ci daranno una prospettiva più veritiera di cosa pensano i vari presentatori/presentatrici e ospiti. Capiterà persino di avere il potere di censurare parole attraverso il solito beep che in teoria dovrebbe coprire i turpiloqui. Dopotutto lavoriamo a un programma in onda in fasce diurne e i genitori non apprezzerebbero di certo vedere personaggi pubblici esprimersi a insulti mentre i bambini guardano. Altre volte potrebbe venirci suggerito dal principale di mandare risate preregistrate in precisi momenti, così da ridicolizzare un ospite sgradito. Oppure
potremmo trovare una VHS senza etichetta, con soltanto l’invito ad “aprire gli occhi” e mandarla in onda al posto degli spot convenzionali. Durante una torrida estate dovremo continuamente azionare e direzionare il ventilatore nel tentativo di non far surriscaldare l’attrezzatura. Una dopo l’altra queste situazioni si accavalleranno e metteranno alla prova il nostro multitasking alla tastiera. A questo proposito c’è un senso diegetico interessante nel giocare, appunto, con mouse e tastiera perché anche il nostro avatar virtuale non fa che premere bottoni e sistemare equalizzatori. In questo senso potrebbe essere interessante una versione in Realtà Virtuale di questo gioco.
Ma sto divagando: il punto del gioco non è la sola gestione della workstation. Nello stanzino nel quale passeremo la maggior parte del tempo capiterà pure di poter osservare fuori dalla finestra e vedere i condomini nelle vicinanze cambiare. Una piccola, letterale finestra sul mondo che ci mostrerà nei limiti del possibile la situazione in corso. Oppure potremo rivolgerci al mobiletto alla nostra destra, sul quale troveremo promemoria o messaggi dai mittenti non sempre chiari. Tutto pur di capire meglio cosa fare quando in casa la situazione diventerà inevitabilmente polarizzata. Eh sì, non tutto si svolge al lavoro.
INSOLITI DILEMMI
Qui Not for Broadcast inizierà a mostrarsi per la sua natura di gioco di ruolo, inteso come il dover compiere scelte determinanti all’interno delle strette maglie della vita di un editor. Qui è dove in un certo senso possiamo trovare un legame con Papers, Please: dinamiche delicate si svolgono sullo sfondo mentre noi (i protagonisti) siamo stretti tra il dovere, il lavoro, una famiglia della quale prenderci cura e l’apparenza di essere completamente ininfluenti sulla situazione in corso. Una maglia in cui possiamo fare una marea di piccole azioni funzionali al lavoro, ma non è chiaro quanto e quando lo siano nel contesto generale. La workstation non è infatti il nostro unico tramite con il mondo di gioco.
La storia si dipana attraverso diversi anni, nei quali giocheremo solo giornate particolarmente rilevanti, assieme ad altre più di routine. Ma al termine di ciascuna di queste torneremo a casa e delle linee di testo ci descriveranno la situazione. Dopotutto, responsabilità di chi lavora in uno studio televisivo è quella di essere ben informati, o perlomeno dare l’impressione di esserlo. Ed ecco che quindi moglie, figli, parenti e amici ci chiederanno pareri su dove sta andando il governo, sull’ultimo scandalo accaduto, su questo o quel personaggio e non potremo restare neutrali per sempre.
LO STIPENDIO NON È SUFFICIENTE A CAMPARE. UNA PROMOZIONE FAREBBE PROPRIO COMODO, MA A CHE PREZZO?
Inoltre lo stipendio non è sufficiente a campare e ci servirebbe davvero quella promozione, ma per averla bisognerebbe stare simpatici al direttore e quindi al finanziatore del canale e quindi premere accidentalmente il pulsante della censura proprio quando l’oppositore politico sta dicendo qualcosa di importante. Questo essere costretti tra diversi fuochi porterà inevitabilmente a dilemmi nei quali ogni decisione sarà in qualche modo sbagliata e penso sia questo il risultato più desiderabile di un gioco che ci chiama a interpretare un ruolo: quando le decisioni da prendere non vengono giudicate moralmente all’istante. Quando da giocatori le possiamo prendere con la coscienza pulita, con gli elementi che abbiamo in quel momento. Le decisioni che prenderemo e le performance sul posto di lavoro porteranno a diversi allineamenti politici e a diverse possibilità di intervenire direttamente su di essi.
È inevitabile: la narrazione è impostata per farci rimpiangere alcune decisioni, ma non sarà stata colpa nostra. Non sapevamo sarebbe finita così.
In tutto questo noi siamo l’omino nella stanza della regia, quello che sceglie le telecamere e manda la musica. Un mister nessuno senza apparentemente potere di cambiare le cose. Ma non è così. Le parole, ciò che la gente vede, ciò che la gente pensa hanno un grande potenziale e la società occidentale ha attraversato un momento in cui l’informazione popolare passava per buona parte attraverso la televisione. Not for Broadcast vuole farci esperire proprio quella fase. Non abbiamo il potere di crearne i contenuti, ma abbiamo quello di censurare.
Il tratto comune con Paper, Please è il metterci nei panni di una persona che non ha possibilità di combattere la distopia
Abbiamo quello di scegliere quale foto mandare in onda parlando di un certo personaggio. Quello di non mandare il primo piano quando qualcuno sta parlando, abbastanza per portare l’opinione pubblica in una direzione anziché l’altra. Il contenuto non cambia, ma scopriremo che la forma ha la sua importanza. Ho menzionato all’inizio dell’articolo Papers, Please. Il tratto comune che trovo in queste due opere è il metterci nei panni di una persona che non ha possibilità di combattere la distopia. Una persona che in qualche modo ci deve vivere dentro, forzata dagli eventi a prendere decisioni di routine che riverbereranno come un effetto farfalla molto più tardi,
in una rete di scelte e conseguenze così ramificata che nel finale diventerà impossibile comprendere precisamente quale nostra azione ha influenzato quell’esito.
Questo articolo è stato scritto per The Games Machine da Frequenza Critica, il blog italiano di approfondimento videoludico.