25 agosto 2022, mancano due settimane al lancio di Splatoon 3, serie che è ormai diventata una certezza per gli aficionados Nintendo.
Ma adesso ci interessa poco, rewind: è il 2011, Wii U è stata appena lanciata tra la curiosità e la confusione generale del pubblico, la cui stragrande maggioranza non avrebbe neanche mai capito davvero cosa fosse la console Nintendo, preferendo tenersi in casa una comoda Wii con Wii Sports annesso nei secoli dei secoli: che il motion control sia con voi, amen.
Tre sviluppatori stanno un po’ rifiatando, riorganizzando le idee dopo essersi tirati abbastanza il collo per contribuire ad arrivare pronti al lancio della nuova ammiraglia, accompagnandola con software di livello; sono Tsubasa Sakaguchi, direttore artistico di Nintendo Land, bizzarro party game che serviva anche da tech demo per le peculiari caratteristiche della macchina e Shintaro Sato (omonimo di un bobbista che partecipò alle Olimpiadi Invernali di Sochi 2014 arrivando 24esimo nella sua disciplina, piccola curiosità), programmatore nel team che lavorò a New Super Mario Bros. U (e successivamente a New Super Luigi U) e il più esperto Hisashi Nogami, che si era appena occupato del sistema operativo di Wii U (intuitivo e molto carino graficamente, ma anche decisamente lento) ma è soprattutto noto per essere una delle menti dietro la serie Animal Crossing. Il trio si organizza in piccolo un team, come spesso accade quando si chiudono progetti importanti, Nintendo gli lascia totale libertà creativa e così si mettono in testa un obiettivo ambizioso, quello di creare una nuova IP da zero, nuovo gameplay, nuovi personaggi, tutto inedito; diciamo che i favori del pronostico non erano dalla loro parte, anche perché l’ultimo che riuscì a lanciare una nuova serie fu Shigeru Miyamoto, uno abbastanza influente nei corridoi degli uffici di Kyoto, nel 2001 con Pikmin.
E CALAMARO SIA!
Se pensate che la futura serie milion seller della Grande N è nata da un prototipo in bianco e nero con due squadre di tofu (esatto) che si fronteggiavano sparavano inchiostro dal naso, potete anche immaginare da che parte pendessero le scommesse durante le pause caffè. Eppure, incredibilmente, il core gameplay l’avevano già beccato, pronti-via. Mancava però il tocco finale per trasformare quelle serate a giocare Call of Duty e Battlefield in qualcosa di più “Nintendo”, un po’ matto, 0-99, adatto a tutti. Un’arena shooter a squadre dalla forte componente online che l’azienda non aveva mai avuto in line-up, dove l’importante era però conquistare il territorio colorandolo piuttosto che mettendo fuori gioco gli avversari; una cosa più vicina allo sport che alla guerra. Una mappa bidimensionale da consultare sulla TV mentre il gameplay di svolgeva sul “paddone” (scelta assolutamente bizzarra e ovviamente invertita, più avanti), con i rispettivi pezzi di tofu che “sparivano” dalla mappa nelle zone dominate dal rispettivo inchiostro, dando agli sviluppatori quell’embrionale idea di nascondino, agguati e fughe che sarebbe stata poi la variante tattica capace di rendere Splatoon così dinamico. Certo, bisognava innanzitutto sostituire quel tofu, che ha sicuramente un certo appeal culinario (al curry, piccante, fritto…) ma come protagonista di un videogioco lascia quantomeno a desiderare.
Certo, bisognava innanzitutto sostituire quel tofu, che ha sicuramente un certo appeal culinario ma come protagonista di un videogioco lascia quantomeno a desiderare.

Eccolo il Tofu Prototype in tutto il suo splendore (?), svelato durante i post-mortem dedicati a Splatoon degli scorsi anni, tra cui un Iwata Ask bellissimo dedicato al titolo.
Ed ecco che in forma di calamaro, con la semplice pressione del trigger sinistro, gli inkling, fino a un secondo prima umanoidi, potevano nuotare in ogni direzione, scalando anche pareti appositamente verniciate, contribuendo a cementare un arena design che si sarebbe rivelato tanto sviluppato in ampiezza quanto in altezza, con le posizioni sopraelevate ambite per dominare tatticamente le partite (e per camperare, ovvio).
UN SUCCESSO INECCEPIBILE
La prova del nove arrivò nella centrifuga dell’E3 2014 (quello del reveal di Breath of the Wild quando ancora non si chiamava così), con una demo giocabile che fece impazzire un po’ tutti per freschezza, idee e soprattutto design (dei personaggi in primis, dopo tanti tentativi), che già si intuiva potesse rappresentare una nuova Nintendo guidata da director emergenti, pronti a prendersi la scena. L’inspirazione alla street culture, i rimandi a opere cult a cavallo del millennio come Tony Hawk e Jet Set Radio, quel senso di comunità e ribellione che nello sport, in questo caso le Mischie Mollusche, trova da sempre uno sfogo e una colonna sonora identitaria, qui a metà tra punk e j-pop, cantato nella lingua incomprensibile e simpaticissima di questa nuova razza che domina la Terra post-umana. L’estetica eco punk, le annunciatrici/DJ Stella e Marina che accoglievano i giocatori all’inizio di ogni partita, il gatto-arbitro, le ambientazioni: tutto contribuiva a dare un contesto vivo e pulsante.
L’estetica, il gatto-arbitro, le ambientazioni: tutto contribuiva a dare un contesto vivo e pulsante.

Inkling Plaza, un hub dove incontrare in differita gli avatar degli altri giocatori, spesso accompagnati da messaggi e disegni creati nel Miiverse: anacronistico e indietro di un decennio rispetto a prodotti simili, ma tutto va contestualizzato in una Nintendo realmente in ritardo di una generazione ai tempi.
UN “CLASSICO” CONSACRATO
Il lancio di fine maggio, col caldo incombente (in questo emisfero, per lo meno), contribuì a far vivere all’opera un’estate da cult che trasformò la nuova IP in una instant hit da 5 milioni di copie su una base installata di 13 milioni di console. Questo nonostante una proposta realmente essenziale, per non dire scarna, al lancio, con sole due modalità online, una breve ma ingegnosa campagna single player e poco altro, al quale però seguì un supporto mensile continuativo, con l’introduzione di nuove armi, arene e modalità (che a fine ciclo saranno 4). Ormai il gioco aveva conquistato il pubblico col suo carattere e le sue unicità, quel variare sul tema per dare vita a un’alternativa made in Nintendo, colorata e surreale, di un genere che dominava (e domina tutt’ora) il mercato. Alla fine, non serve reinventare la ruota quando puoi darci una mano di vernice fluo. Ma quando si parla di major di questo livello, la consacrazione a classico viene determinata dal successo del suo seguito, e due anni dopo, a qualche mese dal lancio di Nintendo Switch, Splatoon 2 svelò realmente il valore commerciale (e popolare) della serie, con più di 6 milioni di copie vendute nel primo anno, fino ad arrivare ai quasi 14 in 5 anni indicati nel report finanziario di quest’anno, quando il terzo capitolo è ormai pronto a dare il cambio.

Basta riguardare una delle immagini promozionali per capire il successo di Splatoon: i colori, il design degli inkling, le ambientazioni piene di dettagli, loghi, poster: personalità al 200%.
Splatoon non era il cavallo vincente su cui puntare, non era la nuova iterazione di un milion seller, un Mario, uno Zelda, ma un side project che avrebbe tranquillamente potuto essere archiviato tra le migliaia di concept conservati nei server di Kyoto senza possibilità che il pubblico sappia mai della loro esistenza. Ma Splatoon ha avuto il physique du role per diventare portabandiera di una Nintendo proiettata al futuro dopo un periodo statico (concluso proprio con Splatoon e la decisione di anticipare il lancio di Switch), guidata da nuovi talenti pronti al cambio generazionale (e ne sono esempi anche Arms, Nintendo Labo e Laboratorio di Videogiochi tra gli altri), che è giusto lasciar liberi di sperimentare, sbagliare e infine creare, sviluppare, cercare il successo, dare vita a un “classico”, o anche “solo” contribuire all’evoluzione di serie decennali, grazie a talenti cresciuti con differenti canoni videoludici, più influenzati dall’occidente virtuale, capaci di mescolare con naturalezza culture e concetti di game design. Splatoon è proprio l’esempio perfetto di questa new wave, un vero e proprio neoclassico capace di dare vita a una serie ormai importantissima a livello commerciale.