Tutte le sfumature di State of Decay – Speciale

“Noi siamo quelli che sopravvivono”. A dirlo era Rick Grimes, il protagonista di The Walking Dead, una delle serie televisive più longeve e iconiche degli ultimi quindici anni. Non è un caso citarlo, specie quando si parla del primo State of Decay, sviluppato da Undead Labs e pubblicato il 5 giugno 2013 su Xbox 360 e qualche mese dopo anche su PC. Se ben ricordate era un periodo a cavallo fra due generazioni e, all’epoca, qualunque cosa ricordasse The Walking Dead poteva dire la propria nel panorama dei videogiochi.

Al tempo, lo ammetto, adoravo qualunque cosa ricordasse la saga fumettistica e la serie TV. Arrivavo dal videogioco di Telltale Games, in cui le vicende di Clementine e Lee mi avevano commosso a tal punto da desiderare un prosieguo quanto prima, anche perché The Walking Dead la guardavo costantemente. Le vicende di Rick Grimes e compagni, infatti, avevano colpito talmente tanto nel segno che chiunque si immedesimava nei personaggi a tal punto da sentirsi braccato, alla costante ricerca di cibo e acqua oltre che disperso e solo, immerso in un mondo irriconoscibile. Se messa alle strette, d’altronde, l’umanità dà il peggio di sé: sopravvivere porta a uccidere, uccidere conduce alla follia e la follia rende temporaneamente liberi finché non si commette un errore fatale per poi morire in un fosso a causa di un proiettile, o mangiato vivo da uno zombie.

È la stessa antropologia a dirlo: se un uomo ritorna una bestia, ogni suo istinto primordiale prende il sopravvento e di chi era prima rimane ben poco

È la stessa antropologia a dirlo: se un uomo ritorna bestia, ogni suo istinto primordiale prende il sopravvento e di chi era prima rimane ben poco. Quanto commette, dai gesti più truci a quelli più deprecabili e brutali, resta davvero ben poco: rimangono la vendetta, la fama e l’illusione di vedere il mondo com’era una volta. Come però insegnano The Walking Dead, The Last of Us e molte produzioni videoludiche e cinematografiche attualmente in corso d’opera, rimangono solo le città in rovina, ora occupate dai morti viventi o da qualunque forma di creatura afflitta dal Cordyceps.

Anche se sono due opere distinte, le sensazioni sono pressoché le stesse, nonostante i canovacci narrativi e le ispirazioni siano nettamente diverse sotto ogni sfaccettatura. Sopravvivere è dura, vivere lo è ancora di più e cercare di essere migliori, che dovrebbe spingere l’uomo a elevarsi ben oltre le sue visioni, è l’unico reale obiettivo per andare avanti senza paura. In State of Decay non c’era Negan con Lucille, la sua adorata mazza da baseball che usava contro chiunque minacciasse la sua autorità. Non c’era neanche un ragazzino con un occhio bendato, sopravvissuto per miracolo a un colpo di fucile. E non c’era un uomo con un revolver e un cappello da sceriffo sulla testa, circondato da macchine e corpi putrefatti. C’erano solo due amici, un lago in montagna e l’illusione di essere al sicuro. Cosa potrebbe andare storto?

“CHI HA UCCISO IL MONDO?”

È una domanda che spesso, quando giocavo a State of Decay, mi ponevo senza ricevere una risposta. La storia raccontata da Undead Labs, tuttavia, inizia in un campeggio lontano dal mondo nel bel mezzo della natura. Un posto da sogno per i pescatori e per chi adora le passeggiate in montagna, ma un luogo pessimo per chi è allergico alle graminacee e ha paura degli orsi. Marcus Campbell e l’amico Ed Jones, come sovente accade, decidono di allontanarsi dalla città per ascoltare il richiamo della natura e andare a pesca per qualche giorno in compagnia, dormendo al chiaro di luna e vedendo sorgere il sole in tutta la sua meraviglia.

State of Decay comincia durante una giornata come tante altre che vale la pena vivere al massimo

I pesci abboccano, la cesta è piena e non c’è niente di meglio che essere con un amico. Ascoltano Eddie Vedder, cambiano il CD e inseriscono musica country, bevendo qualche goccio di birra e raccontandosi aneddoti divertenti sul mondo della finanza, sulla politica e su Donald Trump. Insomma, è una giornata come tante altre che vale la pena vivere al massimo, anche se ormai è il momento di tornare a casa. Si concedono ancora una battuta di pesca. Marcus allunga l’amo a Ed, che intanto cerca di impedire alla lenza di bloccarsi.

All’improvviso, però, entrambi odono un rumore assordante provenire dalla foresta. La presenza di escursionisti e giovani in quel periodo è normale, specie perché nessuno vuole restare in città e c’è chi si vuole godere in anticipo la bella stagione. Marcus infilza la coda del verme, mentre Ed è pronto a lanciare l’amo e sperare che qualche pesce abbocchi. Un altro rumore, stavolta ancora più assordante, cattura la loro attenzione. Entrambi si voltano, lasciando cadere il bastone da pesca e tutte le esche sul terreno ancora bagnato dalla pioggia della sera prima.

Non si sa chi abbia ucciso il mondo, ma negli occhi di tutti c’è solo tanto, troppo terrore

Dagli arbusti esce una donna con un taglio profondo su una gamba ricoperta di sangue, con il braccio sinistro penzolante, gli abiti sgualciti e un morso all’altezza del gomito. Emette un gemito assordante, avvicinandosi sempre di più a due amici, che si guardano interrogativi e spaventati. Forse quella donna ha bisogno di loro, ma nei suoi occhi notano una strana luce. Le iridi pulsano, puzza di carogna e le unghie sono completamente staccate dalle dita, come se avesse scavato nel corpo di qualcuno. Ben prima che accada qualcosa di irrimediabile, Ed e Marcus scappano di corsa verso la macchina, lasciando la cesta con i pesci e la donna al suo amaro destino. Non notano di essere inseguiti e circondati, ma non possono fermarsi per alcun motivo. Salgono sulla vettura, concentrati solamente a raggiungere la stazione dei ranger più vicina e denunciare quanto è avvenuto. Non trovano nessuno, se non altri corpi tumefatti e le creature che mangiano dei corpi dilaniati che prendono vita e fanno lo stesso con chi è sopravvissuto. È il canovaccio narrativo a cui si lega l’intera vicenda di State of Decay.

Una tranquilla gita in montagna si è trasformata in un incubo degno di una pagina di cronaca nera, con la sola differenza che è il mondo intero a essere stato piegato da un’apocalissi zombie comparsa misteriosamente. Dopo aver camminato a lungo, i due incontrano Thomas Ritter e un gruppo di sopravvissuti armati di tutto punto con mazze da baseball e martelli, anch’essi grondanti di sangue. Non si sa chi abbia ucciso il mondo, ma negli occhi di tutti c’è solo tanto, troppo terrore. Là fuori non è sicuro e l’unica alternativa, ora che ogni radio è spenta e non ci sono più contatti con il mondo esterno, è trovare un posto lontano dai pericoli in cui ricominciare.

GESTIRE LA VITA IN STATE OF DECAY

Se non è facile arrivare alla fine del mese, immaginate quanto sia complesso riuscire a sopravvivere a un’apocalissi zombie e vantarsi di essere ancora in piedi e con la sanità mentale intatta nel mondo brutale di State of Decay. Nove volte su dieci sono menzogne: chi le pronuncia lo fa per mostrarsi forte e indomito, anche se chi asserisce di non essere spaventato è in realtà il più terrorizzato fra tutti. Se in passato molti videogiochi proponevano un approccio diverso, State of Decay offriva un contesto interessante e un obiettivo che valeva da solo il suo acquisto: gestire in totale autonomia la vita all’interno dell’apocalissi, procacciandosi del cibo, delle armi e dei farmaci, assicurandosi un luogo in cui convivere con gli zombie in tutte le loro evoluzioni.

State of Decay proponeva un’architettura ludica ben implementata, sorretta dall’introspezione dei suoi vari personaggi

Non c’era scampo: senza viveri, acqua e cure, il gruppo era destinato a morire fra atroci sofferenze. Oltre alle molte situazioni casuali che si vivevano costantemente, una novità rispetto a tante opere simili era rappresentata dalla possibilità di cambiare il personaggio e vivere sfumature del racconto sotto varie visioni. Un solo punto di vista, infatti, non avrebbe aiutato la comunità in alcun modo: State of Decay proponeva un’architettura ludica ben implementata e pensata, sorretta dall’introspezione dei suoi vari personaggi. Intanto che gli eventi si susseguivano, l’importante era arrivare alla fine e continuare imperterriti il proprio obiettivo.

Spesso ho cambiato rifugio per non permettere alle orde di raggiungermi, mentre in altre occasioni, specie a causa degli attacchi degli zombie, sono stato costretto a lasciare qualcuno indietro e cercare una nuova comunità, o direttamente fondarne una tutta mia. State of Decay mette in discussione cos’è giusto e sbagliato allo stesso modo di tante altre opere videoludiche che costringono a compiere delle scelte importanti. In un’apocalissi zombie non c’è davvero tempo per riflettere: bisogna arraffare qualunque cosa, proteggersi e fare finta di non esistere. Il mondo appartiene ai morti viventi e nessuno può farci nulla. Bisogna accettarlo, o convivere con il peso di essere ormai un ospite indesiderato. La nuova catena alimentare vede l’uomo braccato dagli zombie e dagli uomini, intenti a comportarsi come le iene, aspettando che il grande predatore finisca il suo pasto per poi accontentarsi dei resti.

Il mondo non è stato ucciso, ma si è evoluto e ha scelto di tornare a essere brutalmente primitivo. Non c’è spazio per la debolezza: ora governa la legge del più forte. Chi non lo è, purtroppo, è destinato a morire per poi rinascere sotto forma di zombie, diventando lo spietato cacciatore che tutti temono. Non si è più concime per la terra, bensì un altro non morto.

Il mondo non è stato ucciso, ma si è evoluto e ha scelto di tornare a essere brutalmente primitivo

Ecco perché sparare sulla testa di un infetto o di uno zombie è l’unico modo per fermare la trasformazione, anche se in State of Decay non è mai avvenuto. Dal terzo capitolo del franchise, infatti, mi auguro che ci sia la possibilità di uccidere un infetto in questa maniera, così da dare modo al giocatore di vivere in prima persona un evento potente e traumatico, lo stesso vissuto da Rick Grimes in moltissime occasioni. I contenuti aggiuntivi del primo State of Decay, oltre ad offrire due visioni differenti, mettevano il giocatore in una condizione complessa. In Breakdown, pubblicato in concomitanza con l’uscita su PC, un gruppo si occupava di riparare un camper per fuggire lontano dalla valle, mentre Lifeline offriva la possibilità di difendere dei sopravvissuti, vestendo i panni dei militari.

RITROVARE UN DOPO NELL’OBLIO

Non è mai semplice ripartire, figuriamoci ricucire le proprie ferite e sperare che ci sia altro che vale la pena essere vissuto. In State of Decay è meglio non perdere sé stessi e neppure le varie convinzioni che sorreggono l’essenza stessa della vita sotto ogni sua luce. Anche se la speranza all’apparenza non esiste, l’unico modo per sopravvivere un giorno in più è tenere i nervi saldi e concentrarsi sul presente, senza dimenticare la propria umanità. State of Decay parla indirettamente della legge morale di Kant, che racconta del bene comune fra l’uomo, sé stesso e ogni essere vivente. Nonostante State of Decay racconti la fine e l’oblio, l’uomo è il soggetto che può decidere quale scelta compiere in base alle proprie necessità. A differenziare l’essere umano dagli zombie, infatti, è la libertà. La libertà di vivere, di continuare a perdurare con la speranza e a sopravvivere a un mondo ormai consumato dall’oscurità.

State of Decay

Quanto è importante la coscienza all’interno di State of Decay? In realtà molto più di quanto qualcuno potrebbe immaginare. È direttamente collegata ai filamenti che compongono l’anima di chiunque, che può disgregarsi soltanto se messa a dura prova. Il senso comune di un gruppo, che è ciò su cui si fonda la struttura di State of Decay in ogni sua sfumatura, è fondamentale per continuare a sopravvivere con la speranza di arrivare a un fine. Quel fine deve essere l’obiettivo, anche se è complesso raggiungerlo, nonostante sia remoto. La speranza è qualcosa che va scoperta e abbracciata come una vecchia amica che non si fa viva da molto tempo.

State of Decay ci fa capire quanto l’esistenza di ognuno di noi sia in realtà fatta di scelte e strade da intraprendere per essere migliori e diversi

Il messaggio finale dell’opera di Undead Labs, sebbene non realmente dichiarato, è proprio questo: convivere nonostante la brutalità di un mondo disunito, privo della sua umanità e immerso nella morte. E ci fa comprendere quanto l’esistenza di ognuno di noi sia in realtà fatta di scelte e strade da intraprendere per essere migliori e diversi. State of Decay spinge il giocatore verso queste tematiche delicate e importanti che riflettono in un certo senso anche la nostra società. Fa capire che l’oblio, seppure perenne, è comunque sostituibile. Noi siamo quelli che sopravvivono.

Articolo precedente
lara croft forma femminile

Da Lara Croft a Ellie: apologia della forma femminile

Articolo successivo

Total War: PHARAOH – Anteprima Hands-on

Condividi con gli amici










Inviare

Password dimenticata